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Il libro nel mondo semitico e la nascita dell’alfabeto L’alfabeto Le scritture mesopotamiche ed egizie giunsero a un notevole grado di perfezionamento, e per più di un millenio offrirono ai popoli che le avevano adottate un valido strumento di comunicazione. Esse avevano però alcuni limiti intrinseci: - era difficile impararle: l’apprendistato richiedeva parecchi anni di studio e di esercizio. - era difficile usarle: scrivere in geroglifico, disegnando bene uccelli, animali, oggetti e figure umane non era certo operazione rapida; probabilmente imprimere cunei sull’argilla, per una mano esercitata, era più facile, ma anche qui si pensi che a volte una sillaba richiede 10-15 cunei, ciascuno nell’esatta posizione. - c’era sempre un margine di incertezza nella lettura, dovuto all’uso di segni con diverso valore, fonetico o ideografico. - era difficile adattare la scrittura all’indicazione di nuovi oggetti o di nuovi concetti, proprio per suo alto grado di codificazione, che ne limitava la flessibilità. Per queste ragioni non è esagerato sostenere che l’invenzione dell’alfabeto costituì, nella storia dell’umanità, un progresso comparabile all’invenzione della stessa scrittura. I nostri bambini imparano a scrivere già all’asilo, o al massimo nel primo anno delle elementari. Riusciamo a scrivere, ad esempio in un dettato, quasi con la stessa velocità di chi parla. La scrittura è più precisa della parola: si pensi ad esempio ad anno (tempo) e hanno (voce del verbo avere), che non si distinguono nella voce, ma sono diversi nella scrittura. La coniazione di neologismi è infine facile perché la scrittura si limita a rendere foneticamente il nuovo termine. Gli egizi giunsero assai vicino alla scoperta dell’alfabeto, ma non fecero il passo decisivo per conservatorismo e corporativismo degli scribi (ampliare) Nell’antichità si attribuiva la scoperta dell’alfabeto ai Fenici e a un personaggio leggendario di nome Kadmo. Questa convinzione è rimasta intatta sino agli inzi del secolo scorso, quando alcune scoperte archeologiche hanno mutato completamente il panorama. Sino agli inizi del Novecento l’iscrizione semitica più antica che si conoscesse era la stele di Mesha. Questo rendeva possibile mettere in dubbio che gli ebrei all’epoca di Mosé conoscessero la scrittura.

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Il libro nel mondo semitico e la nascita dell’alfabeto L’alfabeto

Le scritture mesopotamiche ed egizie giunsero a un notevole grado

di perfezionamento, e per più di un millenio offrirono ai popoli che le avevano adottate un valido strumento di comunicazione. Esse avevano però alcuni limiti intrinseci: - era difficile impararle: l’apprendistato richiedeva parecchi anni di studio e di esercizio. - era difficile usarle: scrivere in geroglifico, disegnando bene uccelli, animali, oggetti e figure umane non era certo operazione rapida; probabilmente imprimere cunei sull’argilla, per una mano esercitata, era più facile, ma anche qui si pensi che a volte una sillaba richiede 10-15 cunei, ciascuno nell’esatta posizione. - c’era sempre un margine di incertezza nella lettura, dovuto all’uso di segni con diverso valore, fonetico o ideografico. - era difficile adattare la scrittura all’indicazione di nuovi oggetti o di nuovi concetti, proprio per suo alto grado di codificazione, che ne limitava la flessibilità. Per queste ragioni non è esagerato sostenere che l’invenzione dell’alfabeto costituì, nella storia dell’umanità, un progresso comparabile all’invenzione della stessa scrittura. I nostri bambini imparano a scrivere già all’asilo, o al massimo nel primo anno delle elementari. Riusciamo a scrivere, ad esempio in un dettato, quasi con la stessa velocità di chi parla. La scrittura è più precisa della parola: si pensi ad esempio ad anno (tempo) e hanno (voce del verbo avere), che non si distinguono nella voce, ma sono diversi nella scrittura. La coniazione di neologismi è infine facile perché la scrittura si limita a rendere foneticamente il nuovo termine. Gli egizi giunsero assai vicino alla scoperta dell’alfabeto, ma non fecero il passo decisivo per conservatorismo e corporativismo degli scribi (ampliare) Nell’antichità si attribuiva la scoperta dell’alfabeto ai Fenici e a un personaggio leggendario di nome Kadmo. Questa convinzione è rimasta intatta sino agli inzi del secolo scorso, quando alcune scoperte archeologiche hanno mutato completamente il panorama.

Sino agli inizi del Novecento l’iscrizione semitica più antica che si conoscesse era la stele di Mesha. Questo rendeva possibile mettere in dubbio che gli ebrei all’epoca di Mosé conoscessero la scrittura.

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Le iscrizioni sinaitiche

La prima scrittura di questo tipo fu rinvenuta da E. H. Palmer nell’inverno 1868-69 in un remoto e desertico territorio nel sud-est del Sinai, dove sin da tempi lontanissimi gli Egizi avevano scoperto e sfruttato miniere di turchese.1 Il luogo, a qualche chilometro dall’attuale oasi di Firan, comprende due località: Wadi Magharah, dove si trovano le miniere, a 28°54’ N 33°22’E, e Serabit el-Khadem (ــــــرابيت più a nord, dove ,(الخــادم سfu edificato un tempio in onore della dea Hator. L’iscrizione di Palmer fu pubblicata solo nel 1904, da un calco di modesta qualità. Curiosamente essa non è mai stata ritrovata in seguito, ed è quindi nota solo dal calco.2 La scoperta passò comunque inosservata sino a quando nel 1905 Flinders Petrie condusse nella zona ricerche più sistematiche, sia a Wadi Magharah, sia a Serabit el-Khadem. Nel tempio vennero alla luce oggetti votivi, tra cui due sfingi in pietra rosa, di fattura alquanto rozza,3 recanti delle iscrizioni. La prima di esse, la meglio conservata, recava alcune scritte misteriose, sulla parte anteriore; l’altra recava due analoghe scritte sui fianchi, e sulla spalla un quadrato con una dedica, in normali segni geroglifici, a Hator, “signora del turchese”. Tra le zampe si leggeva inoltre il nome di Horus di Sneferu, che era adorato dalla regina Hatshepsut. Petrie portò la sfinge più piccola al British Museum, dove ancora si trova, e lasciò in loco la più grande. Nella zona delle miniere Petrie scoprì inoltre otto tavole di pietra, che riuscì a ricostruire dai frammenti, con segni molto simili a quelli delle due sfingi.

Le iscrizioni non erano leggibili, ma Petrie intuì subito che un gruppo di cinque segni ripetuto su quattro diversi monumenti non poteva essere un nome di persona, ma “some religious phrase”.

Le conclusioni di Petrie erano assai persuasive: How much can be concluded about this writing, while we are yet unable to connect it with signs of known values? 1. It is a definite system, and not merely a scribbling made in ignorant imitation of Egyptian wring by men who knew no better. The repetition of the same five signs in the same order on the figure and on the sphynx from the temple, as well as on

1 La località fu scoperta nel 1809 da Ulrich Jasper Seetzen, e scavata da Lepsius nel 1845. Una mappa del sito fu realizzata dal British Ordnance Survey nel 1868-69. 2 La si legga ora in WILLIAM FOXWELL ALBRIGHT, The proto-sinaitic inscriptions and their decipherment, Cambridge, Harvard University Press (Harvard Theological Studies, XXII), 1966, p. 17, testo 348. 3 Così Petrie le descrive: “A remarkable group of figures was found in the Temple, of a ruder style than the regular Egyptian figures, and some bearing inscriptions in unknown characters [...]. The general form is a usual type of Egyptian figure, but the style is very clumsy, and the head rises up in too cilyndrical a shape” (W. M. FLINDERS PETRIE, Researches in Sinai, with chapters by C. T. Currelly, New York, Dutton, 1906, p. 129).

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three of the tablets over the mines a mile and a half distant, show that mere fancy is not the source of this writing. 2. Il is always associated with work of a style different to all the usual Egyptian work here, a peculiar local style which was not followed by any one trained in Egyptian methods. 3. The direction of writing was from left to right, contrary to later semitic and most Egyptian writing. 4. It is used about the XVIIIth dinasty. The only indication of date that I could find at the mine, L, was a bit of buff pottery with the red and black stripe which we know to be characteristic of the time of Tahutmes III, and perhaps rather earlier, but not later. [...] I am disposed to see in this one of the many alphabets which were in use in the Mediterranean lands long before the fixed alphabet selected by the Phoenicians. [...] Some of the workmen employed by the Egyptians, probably the Aaamu or Retennu – Syrians – who are often named had this system of linear signs which we have found; they naturally mixed many hierogliphs with it, borrowed from their masters. And here we have the result, at a date some five centuries before the oldest Phoenician writing thas is known. [...] Common Syrian workmen, who could not command the skill of an Egyptian sculptor, were familiar with writing at 1500 B. C., and this a writing independent of hierogliphics and cuneiform. It finally disproves the hypothesis that the Israelites who came through this region into Egypt and passed back again, could not have used writing.1 Queste supposizioni furono condivise da Alan Gardiner, che una

decina di anni dopo2 studiò a fondo queste iscrizioni facendo un’interessante scoperta. Egli osservò che alcuni di quei segni pittografici erano assai simili a segni geroglifici. Attribuendo a ciascun segno il nome semitico della cosa rappresentata dai due segni, protosinaitico e geroglifico (simili, ma in molti casi quello geroglifico era più chiaro) e prendendo la lettera iniziale di questo nome (acrofonia), si otteneva la corrispondente lettera dell’alfabeto. Partendo da questa ipotesi, Gardiner riuscì a leggere in una delle due sfingi il nome l-bʻlt, appartenente a Baalat, la signora, nome semitico della dea Hator.

Gardiner identificò nove lettere, ma non poté andare oltre, perché il

materiale disponibile era ancora scarso. Negli anni successivi una serie di spedizioni esplorò più a fondo il sito: furono scoperte molte altre iscrizioni, si fecero fotografie e calchi più precisi, e gran parte del materiale, compresa la sfinge più grande, fu trasferito al Cairo.

Recentemente un sostanziale passo avanti è stato compiuto grazie agli studi di William Foxwell Albright, che nel 1966 ha pubblicato un breve ma sistematico lavoro sul corpus delle iscrizioni. Albright ha potuto utilizzare allo scopo sia i testi di Ugarit, nel frattempo scoperti e decifrati, 1 W. M. FLINDERS PETRIE, Researches in Sinai, op. cit., pp. 130-32. In questo libro, apparso a breve distanza dalla spedizione, Petrie inserì molte chare fotografie delle due sfingi e delle iscrizioni, rendendo cos’ disponibile a tutti il materiale rinvenuto. 2 A. H. GARDINER, The Egyptian Origin of the Semitic Alphabet, “Journal of Egyptian Archaeology”, n. 3, 1916, pp. 1-16.

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sia le molte iscrizioni protocananee scavate in quegli anni in Siria e Palestina. Albright elenca 27 lettere, e ne identifica 23. Pubblica inoltre, traslittera e traduce 27 iscrizioni, due delle quali scoperte nel 1960 da Georg Gerster a Wâdi Naṣb.

Questa è la tabella proposta dall’Albright:

Come si vede, dai tempi di Petrie la nostra conoscenza delle epigrafi

sinaitiche è molto aumentata, anche se il problema non può ancora dirsi del tutto risolto. Ha scritto ad esempio Joseph Naveh,

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Despite some readings which are indisputably correct, it would be premature to state that the Proto-Sinaitic inscriptions have been satisfactorly deciphered. However, these texts include quite a large number of pictographs which were definitely identified as the original forms of the Phoenician letters. Thus the main importance of this discovery is the contribution which these inscriptions make to the origin and the early history of the alphabet.1 Se la natura alfabetica della scrittura protosinaitica è generalmente

riconosciuta, molto più difficile è stabilire con precisione il suo posto nell’evoluzione dell’alfabeto, anche perché circa 400 anni la separano dalle prime iscrizione fenicie note.

Si può supporre che il racconto biblico della prigionia in Egitto corrisponda alla testimonianza archeologica e che gli schiavi che lavoravano nelle sperdute miniere del Sinai fossero proprio ebrei prigionieri. In tal caso la scrittura protosinaitica rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra la scrittura egizia e le scritture alfabetiche semitiche, tra cui l’ebraica, che si affermarono assai più tardi. Ma sarebbe anche la scrittura usata dagli Ebrei (o da alcuni di essi) all’epoca dell’Esodo e di Mosé, il quale potrebbe aver impiegato proprio questa scrittura, o una scrittura simile, da essa derivata, per registrare sulle Tavole della Legge i Dieci Comandamenti. Ma per ora questa è solo una suggestiva ipotesi.

C’è poi la possibilità che questo alfabeto sia da collegare agli Hyksos, popolo semitico, che proprio in questi anni furono cacciati dall’Egitto (ampliare)..

Le iscrizioni protosinaitiche hanno un numero di serie Poiché le 11 iscrizioni trovate da Petrie furono pubblicate da Gardiner e Peet nel 1917nel volune The Inscriptions of Sinai dopo le iscrizioni egizie trovate nello stesso luogo, ricevettero i numeri dal 345 al 355. Le iscrizioni trovate successivamente hanno avuto i numeri dal 356 in poi. Si è arrivati oggi al n. 380.

Sarà inutile, in questa sede, descrivere minutamente tutte le iscrizioni. Ne esamineremo solo una, a titolo di esempio.2

Il n. 345 è la sfinge del British Museum, base 24 x 14, altezza 15

centimetri. La scritta in geroglifico è chiaramente leggibile: il falco

racchiuso nel quadrato con un quadratino all’angolo rappresenta il

1 JOSEPH NAVEH, Early History of the alphabet. An introduction to west semitic epigraphy and palaeography, Jerusalem, The Magnes Press, The Hebrew University, Leiden, Brill, 1982, p. 24. Ancora più drastico il giudizio del Garbini: “il tentativo di decifrazione generale compiuto da W. F. Albright è generalmente respinto, tranne che dai suoi allievi. Attualmente sono soltanto una dozzina i segni che possono ritenersi ragionevolmente decifrati, mentre è poco probabile che le iscrizioni note contengano tutti i segni alfabetici della scrittura protosinaitica (p. 68). 2 Per uno studio particolareggiato di tutte le iscrizioni, si veda oggi Sass, pp. 14-50.

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nome della dea Hator, ḥtḥr; i due segni mry, significano amato da;

i segni (con il determinativo , minerale), fkɜt (ma la forma più comune è:

mfkɜt), corrispondono alla parola turchese: quindi: amato da Hator, (signora del) turchese. La sfinge 345 è il solo oggetto trovato nel Sinai che abbia contemporaneamente scritte in geroglifico e in protosinaitico.

Le scritte protosinaitiche sono formate, sulla parte destra della

sfinge, da sei segni, sulla parte sinistra da otto. La prima scritta è leggibile chiaramente, da sinistra a destra: m’hbcl[t], ed è stata tradotta dapprima con: m’h bcl[t], amato da Bacalat, in stretto parallelismo con la scritta geroglifica. Albright ha però ritenuto di separare diversamente le parole, e di leggere : m’ hb cl[t], swear to give a sacrifice.

La scritta del lato sinistro, più danneggiata, pone invece problemi di lettura. Albright suggerisce, sempre da sinistra: nḏ b?ḥ lbclt, in order that we may sacrifice to Baalath. E’ però dubbia la lettura nḏ (si tratterebbe del solo caso di ḏ con i due tratti verticali), e molti pensano che si tratti di un unico segno, forse un kap. Il segno successivo assomiglia al waw, ma nel Sinai il waw ha la forma di mazza, con il cerchio chiuso q. Più prudentemente il Sass propone la lettura xxxlbclt.

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Le iscrizioni di Wadi el-Hol Recenti scoperte archeologiche hanno però complicato il quadro. Nel 1992 John Coleman Darnell, professore di egittologia a Yale, e sua moglie Deborah, esplorando l’antica strada che da Tebe portava ad Abydos, trovarono, a circa 45 kilometri a nord-ovest di Luxor, un tratto di strada assai ben conservato, fiancheggiato da pareti di calcare. Su questa parete erano chiaramente leggibili centinaia di antiche iscrizioni. Il sito era detto Wadi el Hol, ھول وادي wadi del Terrore, e si trova circa a 25° 95’ lat Nord e ال32° 47’ long. Est.1 Queste iscrizioni sono quasi certamente opera di soldati egiziani, che avevano l’abitudine di incidere sulla roccia i loro nomi e titoli, e occasionalmente delle preghiere o invocazioni agli dei, per essere protetti durante il viaggio. Ritornato in seguito a Wadi el Hol, Darnell individuò, nel gran numero di iscrizioni ieratiche e geroglifiche, due iscrizioni di particolare interesse, rispettivamente di 16 e 12 segni, assai simili a quelli ben noti di Serabit el-Khadim. Le iscrizioni furono accuratamente fotografate, e si cominciò a studiarle.

Le iscrizioni non sono state ancora decifrate, ma molte supposizioni sono verosimili. All’inizio si pensò che queste iscrizioni fossero più antiche

1 J. C. Darnell, Theban Desert Road Survey in the Egyptian Western Desert 1, Gebel Tjauti Rock-Inscriptions 1-45 and Wadi el-Hol Rock Inscriptions 1-45, OIP 119 (Chicago: Oriental Institute Press, 2002).

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di quelle di Serabit. L’opinione oggi prevalente è che essendo le iscrizioni ieratiche e geroglifiche dello stesso sito ascrivibili al tardo Medio Regno (XVIII sec.), anche le due iscrizioni alfabetiche siano da collocare nello stesso periodo, e che quindi siano leggermente posteriori a quelle di Serabit.

E’forse possibile leggere רב rb all’inizio della prima iscrizione come rebbe, capo (cfr. ebraico rabbi) e אל ’l alla fine dell’iscrizione 2 come el, Dio. Si notino anche nella prima iscrizione i due segni in forma di figura umana. L’uomo con le braccia alzate è forse da identificare con il geroglifico Gardiner A28 (uomo celebrante) l’altra figura che sembra essere in movimento potrebbe essere Gardiner A 17 (bambino) o Gardiner A 32 (danzatore). In ogni caso questi segni sembrano essere determinativi, non segni puramente alfabetici: se questo fosse vero saremmo in presenza di una scrittura più simile al geroglifico rispetto a quelle di Serabit, che non hanno determinativi. Si noti poi il segno corrispondente al res, una testa con cappello: questo cappello è di foggia cananea, e il segno non corrisponde al segno geroglifico che indica la testa.

Queste iscrizioni sembrerebbero dimostrare che prima delle

iscrizioni sinaitiche, delle scritture puramente alfabetiche erano già impiegate in Egitto. Una possibile ipotesi è che queste scritture siano state sviluppate da semiti residenti in Egitto per varie ragioni (mercanti, prigionieri, mercenari, lavoratori immigrati) per adattare i geroglifici alle esigenze del proprio linguaggio, che richiedeva al massimo una trentina di fonogrammi. In tal caso l’alfabeto sarebbe nato nel seno stesso della civiltà egizia. Ci si chiede tuttavia attraverso quale meccanismo i semiti scelsero, per esprimere la propria lingua, dei segni derivati parzialmente dai geroglifici. E ci si chiede soprattutto attraverso quali vie l’idea di alfabeto, già in nuce nel sistema egizio, sia giunto ai popoli semitici, che lo svilupparono poi nelle loro particolari forme quasi mille anni dopo. Le scritte pseudogeroglifiche di Byblos A Byblos, l’antica Gebal, dove evidentemente si avvertiva in modo particolare la necessità di elaborare un nuovo sistema di scrittura, sono stati trovati parecchi documenti scritti, risalenti al periodo del Medio regno egizio (2100-1700). Driver enumera dieci oggetti: 1. Una grossa lastra di pietra con 10 righe di testo 2. Una piccola lastra di pietra con 5 righe di testo 3. due frammenti di pietra provenienti dallo stesso monumento, uno con 4, l’altro con tre righe di testo, difficilmente leggibili 4. Un pezzo di pietra con quattro segni posti verticalmente 5. Una grande tavola di bronzo con 13 righe da una parte e due dall’altra

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6. Una piccola tavola di bronzo con 22 righe da una parte e 19 dall’altra 7. Una piccola spatula di bronzo scritta da una parte con tre righe 8. Una piccola spatula di bronzo con quattro righe da una parte e tre dall’altra 9. Una grande spatula di bronzo con 5 righe da una parte e quattro dall’altra 10. Una spatula di bronzo con quattro righe da una parte e tre dall’altra In tutto 4 spatule, 2 tavole di bronzo e 4 lastre di pietra. Questo materiale fu trovato da Maurice Dunand nel corso di scavi condotti tra il 1928 e il 1932, e pubblicato nel 1945. E’ collocabile tra il XVIII e il XV secolo. Le tevole di bronzo non sono realizzate graffiando il metallo, ma con punzoni e martello. Le dieci iscrizioni insieme contengono 1046 segni, divisibili secondo Dunand in 114 tipi diversi, secondo Garbini in 90. Molti segni sembrano derivare direttamente dal geroglifico e dallo ieratico. Molti altri sono simili alle successive lettere dell’alfabeto fenicio. Sono stati fatti molti tentativi per decifrare questa scrittura (Dhorme, 1946; Sobelman, 1961; Martin, 1962; Mendenhall 1985), ma nessuno di essi è davvero convincente.

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Un’ulteriore lastra di pietra, sempre da Byblos, con l’inizio di tre righe di testo, in una cornice rettangolare, pur appartenendo all’ambito della scrittura pseudogeroglifica, ha particolari affinità con l’alfabeto fenicio, tanto che Grimme ha potuto leggervi all’inizio della seconda seconda riga le parole: b-gbl, in Gebal, e rb, padrone. Commenta Driver:

The signs in the inscriptions on all the objects just described are clearly not numerous enough for a pictographic or even for a syllabic script, but they are equally clearly too numerous for an alphabet; in appearance most of them are pseudo-hieroglyphic but some of them strongly recall various forms of the Phoenician letters. In other E’ collocabile tra between the Egyptian hieroglyphic script and the Phoenician alphabet, possibly an elaborated alphabet combined with a certain number of signs having determinatives values. At the same time, their script on the one hand shows no affinity to that of the Sinaitic inscriptions, and the two systems must probably be regarded as parallel developments; on the other hand many of the signs resemble those of the epigraphs found at Lachish, which may be due to borrowing on the one side or the other, or perhaps rather to common influences.1

E’ difficile dire se queste iscrizioni debbano essere associate agli

alfabeti proto-cananei, dato il loro carattere eminentemente pseudo-geroglifico.

Le iscrizioni e la scrittura protocananea Accanto alle iscrizioni trovate in territorio egizio, anche se opera di popolazioni semitiche, è da annoverare tutta una serie di iscrizioni, alcune delle quali assai antiche, che documentano un’estesa presenza della scrittura lungo l’intero arco del secondo millenio nei territori della Cananea: Siria, Fenicia, Palestina.

1 Driver, p. 93-94.

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Alcune iscrizioni, forse le più antiche si sottraggono ancora ad ogni tentativo di interpretazione.

I reperti più antichi in assoluto provengono da Tuleilat el-Ghassul, nella pianura di Moab, circa 5 chilometri a nord del Mar Morto.1 Il Pontificio Istituto Biblico ha condotto sul luogo una serie di scavi tra il 1929 e il 1938, e poi ancora nel 1959-60, sotto la guida di Robert North, S. J., e nel 1975-78. Gli scavi hanno portato alla luce molti oggetti con iscrizioni: sassi incisi,2 sigilli, cocci. Queste incisioni sono molto rozze, quasi sempre formate da linee diritte, e gli stessi segni si ripetono molte volte. L’ipotesi più probabile è che si tratti di marchi di proprietà. Oggetti con iscrizioni sono stati scoperti in gtutti gli strati del sito, che sono databili tra il XXV e il XIX secolo.

Già l’Albright nel 1966 era in grado di collocare le iscrizioni sinaitiche “in an evolutionary sequence of letter forms beginning in the 17th century B. C. and extending down into the Iron Age”.3 Ma nel 1966 solo dodici iscrizioni erano note. Eccole nell’ordine cronologico proposto dall’Albright: 1. Coccio di Gezer (XVII sec,) 2. Spada di Lachish (1600-1550) 3. Iscrizioni sinaitiche (1525-1475) 4. Prisma di Lachish (1435-1423) 5. Placca di Shechem 1450-1400) 6. Sigillo a cilindro di St. Louis (XIV sec.) 7. Frammento di Byblos (XIV-II sec.) 8. Vaso votivo di Lachish (c. 1235) 9. Anello d’oro di Megiddo (seconda metà del XIII sec.) 10. Punte di freccia di El-Khadr 11. Sigillo di Revadim, con quattro lettere

1 Sull’argomento si veda la voce di John B. Hennessy in Anchor, vol. II, con aggiornata bibliografia. 2 Ciottoli incisi in epoca assai antica, con disegni regolari, sono stati trovati anche a Sidone: ma si tratta probabilmente di pezzi appartenenti a qualche tipo di gioco. Cfr. Driver, p. 91. 3 p. 10.

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12. Ostrakon di Beth Shemesh (XII-XI sec.) Negli anni successivi il panorama è cambiato notevolmente. Nel 1988 Benjamin Sass elencava ben 22 iscrizioni cananee collocabili tra il Bronzo Medio e la stabilizzazione della scrittura nella Fenicia dell’XI secolo.

Esaminare tutte queste testimonianze esula dai limiti del nostro lavoro e delle nostre competenze. Ci limiteremo a descrivere brevemente alcune fra le iscrizioni più importanti e famose.

Il coccio di Gezer è un frammento rinvenuto nel 1929 a Tell Gezer,

che l’Albright attribuisce al XVII secolo, ma che potrebbe essere anche molto più antico o molto più recente. Esso reca tre lettere incise prima della cottura, e chiaramente leggibili: la prima è un kaf, la terza un bet. La lettera di mezzo è dubbia, ed è stata letta come nun, lamed o waw. Non sappiamo comunque se le tre lettere corrispondano a una parola, a parte di una parola, o a diverse parti di due parole.

Il coccio di Nagila fu trovato nel 1963 a tel Nagila, e conserva tracce di incisione precedente la cottura. Risale al XVII secolo. Sass legge: n / n h ẇ y ∙ ẏ. Si noti la seconda lettera della seconda riga, certamente un he,

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che rappresenta un uomo con le mani alzate. Il segno separatore di parola, una specie di puntino, è il più antico di cui ci sia testimonianza.

La spada di Lachish è una lama rinvenuta nel 1934 da Starkey a Lachish, nella tomba n. 1502, e dal contesto funerario andrebbe collocata nel MB II B, cioè nel XVII secolo. Sulla lama sono incisi quattro segni. L’Albright vi legge le lettere ṭ r n z probabilmente un nome di persona, Turranza, in lingua hurriana. Sass manifesta però molte perplessità sull’interpretazione del primo e del quarto segno, non essendo il thet e lo zayn identificabili nelle iscrizioni sinaitiche. Queste prime tre iscrizioni sono molto pittografiche, e sembrano precedere, anche dal punto di vista paleografico, quelle del Sinai, che sono più schematiche.

La placca da Shechem è un frammento di rilievo in pietra calcarea,

scoperto nel 1934. Esso è la parte inferiore destra del rilievo, della cui raffigurazione rimane una piccola parte; l’incisione sembra essere posteriore, incisa in maniera rozza: ne rimangono sette lettere complete e parte di un’ottava. L’Albright vi legge le lettere b ʼ r ḡ m m ʼ r , e la data alla seconda metà del XV secolo, anche per ragioni paleografiche: essa

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quindi sarebbe posteriore alle iscrizioni del Sinai. Sass la legge invece b d r k ṯ ṯ d r sottolineando però che questa è solo una delle molte alterrnative. Si noti che la prima lettera, frammentaria, può essere interpretata in molti modi; la seconda può essere alef o dalet; la terza e l’ottava sono certamente res; la quarta potrebbe essere il palmo di una mano con un solo dito, che Albright legge appunto ḡ; le due lettere che Albright legge mem sono viste dal Sass come il segno dell’arco composto, tann in semitico, presente anche nelle scritture protosinaitiche. Questo segno shin/ṯ vale nel XV secolo, secondo l’Albright, t oppure š. In seguito assunse nel sud-cananeo il valore š.

Il vaso di Lachish fu scoperto, naturalmente in pezzi, in un deposito di spazzatura vicino al Tempio di Lachish, ed è assegnabile al XIII secolo. Esso reca sulla spalla un’iscrizione, da sinistra a destra, mescolata ad altri disegni. Una parte dell’iscrizione, corrispondente alla lacuna del vaso che si vede in altro a sinistra nella fotografia, è mancante. I segni alfabetici sono mescolati ad altri segni, pittografici, non si sa se aventi solo scopo decorativo o anche un significato. Riproduciamo la parte scritta del vaso, prima interamente, poi con i soli segni alfabetici. Quasi tutti i segni sono leggibili con certezza: da sinistra: m t n š y [ ] t y ʼ t La lacuna è stata colmata da Cross nel 1954 con i segni l r b. L’iscrizione è traducibile con: Mattan. Offerta alla mia signora ‘Elat. Mattan è evidentemente il nome del donatore, e il dono sembra essere il vaso stesso o ciò che esso conteneva. Le tre lettere mtn potrebbero anche essere tradotte con dono invece che con un nome di persona. La quarta lettera è ancora il segno dell’arco composto, shin/t. La parola è quindi sy o ty che in Ugaritico vale offerta.

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L’anello d’oro di Megiddo, trovato nel 1931 in una tomba, e databile circa 1350-1250, è di difficile interpretazione. Driver lo accosta ai testi dell’antica Byblos, ai cocci di Beth-Shemesh, e all’iscrizione di Ahiram, ma conclude affermando che “the suggested interpretations of the text on these lines make no sense”.1 Sass lo considera addirittura una pseudo-iscrizione.2 Recentemente un tentativo d’interpretazione è stato elaborato da Gordon Hamilton.3

Punte di freccia di al-Khader. Queste cinque punte di freccia furono trovate nel 1953 Ad al-Khader, una città della Palestina a pochi chilometri da Betlemme.4 Quattro hanno iscrizioni in colonne verticali, e una un’iscrizione orizzontale, da entrambe le parti. La scritta sulle prime quattro è pressoché identica, con minime varianti grafiche, ed è leggibile h ṣ ʽ b d l b ʼ t “la freccia di ʽAblabiʼat”. L’iscrizione sulla quinta freccia si legge invece ʽ b d l b ʼ t / b n ʽ n t, ʽAblabiʼat (figlio di) Benʽanat, senza le lettere hs, freccia. Queste frecce appartengono forse alla fine del XII secolo 1 Driver, p, 102. 2 “The form of one of the signs is identical to the Proto-Canaanite vertical shin, [...] but since the rest of the signs cannot be identified, there is no way of knowing whether this resemblance is accidental or not. For this reason, I prefer to regard these signs as a pseudo-inscription” (p. 101). 3 “Near Eastern Archaeology", 2002, p. 38b. Si veda anche, dello stesso autore, The origins of the West semitic Alphabet in Egyptians Scripts, 2006 e Giovanni Garbini, Introduzione all’epigrafia semitica, 2006, p. 63 e Colless, Abr-Nahrain, 1996-97, 45-46; 1998, 33, 46. 4 Le prime tre frecce sono ira in tre diversi musei, a Gerusalemme e ad Amman; le altre due soni in collezioni private.

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L’ostrakon di Beth Shemesh è un coccio probabilmente dell’inizio del secolo XII, con una scritta a inchiostro nero già molto sbiadita all’epoca del ritrovamento, nel 1930, e ora quasi del tutto scomparsa. La lettura del testo presenta particolari difficoltà.

Il retto presenta due colonne: ḥ n n / g m ʽ n. Si tratta probabilmente di due nomi di persona, Ḥannun e Gumʽan.

Nel verso la prima colonna, a destra (ma l’ordine delle colonne non è chiaro) va certamente letta: l ʽ ẓ ʼ ḥ. Le altre lettere sono di fatto illeggibili, tranne l’alef all’inizio della seconda colonna. Come ha scritto Sass, “All agree on the identification of the letters and the reading of the shorter text (the recto). As to the reading of the text on the verso, in contrast, the number of different readings approximates the number of readers”1

A questi documenti, conosciuti dall’Albright va aggiunta una recente notevolissima scoperta, l’ostrakon di Izbeth Sartah. Esso fu scoperto nell’agosto 1976 da archeologi israeliani nel sito di un antico villaggio, occupato tra il 1200 e il 1000, chiamato ora in arabo ‘Izbet Sartah, due miglia a est dell’antica città palestina di Aphek. Forse questo luogo è 1 Sass, p. 64

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identificabile con l’antica città di Ebenezer, citata dalla Bibbia. Questo coccio, composto da due frammenti, contiene circa 80 lettere su cinque righe. La forma delle lettere è intermedia tra i tipi più antichi di proto-Cananeo e la scrittura lineare ebraica che si affermerà in seguito. Tutte le lettere sono leggibili abbastanza chiaramente, ma il loro insieme non dà alcun senso. L’ipotesi più plausibile è che si tratti di un esercizio di scrittura da parte di una persona semi-letterata, che tentava di scrivere un abecedario, e che poi si stancò e si mise a scrivere delle lettere a caso, in forma piuttosto rozza. Proprio in questo sta l’importanza di questo coccio dall’aspetto modesto: esso indica che in un’epoca assai remota, in pieno periodo dei Giudici, poco dopo Mosé e due secoli prima della Monarchia, in uno sperduto villaggio della Palestina qualcuno stava cercando di imparare a scrivere. Gli Ebrei arrivarono relativamente tardi alla scrittura, dopo altri popoli che abitavano la mezzaluna fertile. Ma la Bibbia ci dice che all’epoca di Mosé essi già la conoscevano. L’ostrakon di Izbet Sartah non è così antico, ma è comunque una testimonianza preziosa sull’esistenza di una cultura letteraria ebraica molto prima di Saul.

Queste (ed altre) scoperte hanno portano a sostituire il termine protosinaitico con il termine più comprensivo di proto-cananeo, che abbraccia tutte le testimonianze di scrittura appartenenti al periodo 1700- 1100 ad opera di popoli semitici, in Palestina, in Egitto, nel Sinai.

Le caratteristiche dela scrittura proto-cananea sono le seguenti: - fu inventata intorno al 1700 da Cananei che avevano qualche conoscenza del sistema di scrittura egizio - le lettere, tutte consonanti, erano in origine 27, che si ridussero a 22 intorno al XIII secolo. - i segni erano pittogrammi, per la maggior parte con valore acrofonico, che si trasformarono poi in lettere lineari - trattandosi di pittogrammi era possibile scrivere in ogni direzione, da destra, da sinistra, verticalmente o bustrofedico. La scrittura verticale sparì intorno al 1100. - quando si stabilizza l’uso di 22 lettere, scompare la scrittura verticale, e si perde ogni connotazione pittografica, a metà dellXI secolo, non si parla più di scrittura proto-Cananea, ma di scrittura Fenicia.

La scrittura proto-cananea fu impiegata esclusivamente nell’ambito delle lingue semitiche, le cui caratteristiche sono: contengono parecchi suoni inesisitenti nelle lingue europee distingue tra vocali corte e lunghe le radici consonantiche: le vocali hanno il compito di articolare le radici le parole non cominciano mai con vocale

Le lingue semitiche si dividono in tre famiglie principali:

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Nord: Ugaritico, Fenicio e Punico, Ebraico, Moabita, Edomita, Aramaico, Nabateo, Palmireno, Samaritano, Siriaco Est: Akkadico e derivati Sud: Sabeo, Arabo, Etiopico (Gheez e Amharico) Le iscrizioni e la scrittura fenicie L’alfabeto fenicio

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La scrittura fenicia deriva direttamente dalla scrittura proto-Cananea, e comincia intorno al 1050. Si scrive da destra a sinistra, sempre orizzontalmente. Ha 22 lettere.

I Fenici scrivevano soprattutto su papiro, che importavano dall’Egitto. Ma nel clima freddo e umido del Libano il papiro non si è conservato. Per questa ragione ci è rimasto pochissimo della letteratura fenicia: solo una dozzina di testi, tutti epigrafici, chiaramente leggibili, ma non particolarmente significativi. Possiamo però ricostruire la religione e la cultura dei fenici grazie ai testi di Ugarit, giuntici in gran numero perché scritti su tavolette di argilla. La cultura fenicia e la cultura ugaritica hanno infatti molte affinità, appartenendo entrambe al mondo cananeo.

Dal Fenicio derivano il punico e il neo-punico, che sono sostanzialmente identici.

Iscrizioni fenicie cono state trovate ovunque nel Mediterraneo, anche in Sicilia e in Sardegna (l’iscrizione di Nora, in sardegna, è dell’XI secolo).

Col tempo si perde anche l’uso di dividere le parole, che mantengono invece ebrei (col punto) e aramaico (con la spazio).

Le ultime iscrizioni neopuniche sono intorno al 200 d. C. Poi la scrittura cessa totalmente di esistere. Le iscrizioni più importanti

L’iscrizione di Shifṭibaʻal. E’su pietra, sulla parete di una sorgente, XVII-XV secolo. Essa è traducibile: “Muro costruito da Shifṭibaʻal, re di Byblos, figlio di Elibaal, re di Byblos, per Baalat-Gebel, sua signora. [Possa] Baalat-Gebel prolungare i giorni di Shifṭibaʻal e i suoi anni su Byblos”.

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Iscrizione di Elibaal su una statua di Osorkon I (c. 924-895) Sul busto della statua ci sono due iscrizioni incise: il prenome di Osorkon (Sekhemkheperre-setepenre) con un cartiglio e un dedica fenicia: “Statua che Elibaal, re di Byblos, figlio di Yehimilk, [re di Biblo], fece [per] Baalat-Gebel, sua signora. Possa Baalat-[Gebel] prolungare [i giorni di] Elibaal e i suoi anni su [Byblos]”. Albright sostiene che il re Elibaal di Biblo fu ‘ovviamente quasi contemporaneo’ di Osorkon I considerando che la dedica di una statua reale egiziana ad una dea straniera – in questo caso la dea patrona di Byblos – veniva posta quando il faraone regnava piuttosto che dopo la sua morte, proprio come la statua di Sheshonq I - il predecessore di Osorkon I - che fu portata in Libano durante il regno di Abibaal, sovrano di Byblos prima di Yehimilk, padre di Elibaal.

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Iscrizione sul sarcofago di Ahiram, circa 1000

Iscrizione di Abibaal su una statua del re egizio Shishak (Sheshonk) I (c. 945-924)

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Sulla statua di Sheshonq I, trovata nel 1894, Il testo fenicio afferma esplicitamente che il dono per il tempio di Baalat Gebel è stato portato dall’Egitto dal re Abibaal in persona. Possiamo avere cosi una possibile sequenza di sovrani: Per inciso Abibaal re di Biblo non va confuso con Abibaal re di Tiro padre di Hiram I, secondo Giuseppe Flavio.

Stele di Kilamu, re di Yadi, anatolico, ma in fenicio, fine IX secolo, dimostra che il Fenicio ebbe dimensione internazionale.

Karatepe (“Monte nero”) si trova nel sud-est della Turchia, nella zona dell’antica Cilicia, vicino ai monti Tauro. Era un centro importante, perché controllava il passaggio dall’Anatolia alle pianure della Siria. Qui in epoca neo-hittita (VIII secolo) il re Azatiwada fece costruire una fortezza, che fu poi distrutta dagli Assiri tra la fine del VII e l’inzio del VI secolo. Il sito fu scoperto nel 1947 dall’archeologo tedesco naturalizzato turco Helmut T. Bossert. Furono trovate molte rovine, statue, due porte monumentali, delle sfingi, dei leoni, e un gran numero di iscrizioni, in geroglifico luviano e in fenicio. All’interno delle porte, nel cuore della cittadella le pareti erano abbellite da rilievi rappresentanti scene di caccia, di guerra e di vita quotidiani. Le iscrizioni sono in assoluto le più lunghe giunte sino a noi, sia per la scrittura luviana, sia per la scrittura fenicia. Dei geroglific luviani e della loro scoperta parliamo in un altro capitolo. Le iscrizioni fenicie sono classificate secondo la loro collocazione: Phu/A (Phoenicia, Unteres Tor, North Gate) Pho/B (Phoenicia, Oberes Tor, South Gate) PhSt/C (Storm God – statua con una lunga iscrizione sul dorso)

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Pho/S.I. (South Gathe, separate inscriptions)1

Questa iscrizione è sul fianco di uno dei due leoni (Phu /A IV, Portal lion) precisamente quello all’inizio della porta nord, il meglio conservato. Diamo la sua traduzione in inglese: That man those name is “man”! The name of Azatiwada only may last for ever like the name of the sun and the moon!2 E’ chiaramente leggibile il nome del sovrano, all’inizio della seconda riga, dalla terza lettera. Alcuni testi sono presenti nella duplice versione, fenicio e geroglifico luviano, e per questo sono in genere considerati bilingui. In realtà le due versioni non sono mai esattamente identiche, perché ciascuna di esse si rivolge a un diverso lettore.

Ugarit

La scoperta di Ugarit e dei suoi archivi cuneiformi fu uno degli avvenimenti più straordinari dell’archeologia del Novecento. Nel marzo 1928, nella Siria settentrionale, a Minet el-Beida (“Porto bianco”), preso la costa, un contadino che arava il suo campo trovò casualmente una tomba. Entrato in essa, e prelevati gli oggetti che conteneva, si affrettò a venderli sul mercato clandestino. La notizia tuttavia si sparse, e giunse alle orecchie delle autorità. La Siria e il Libano erano in quegli anni controllati dai

1 HALET ÇAMBEL, Corpus of Hierogliphic Luwian inscriptions, vol. II, Karatepe-Aslantaş, Berlin, New York, Walter de Gruyter, 1998. 2 Ibid., p. 55.

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francesi, e a capo del servizio antichità era un noto orientalista, Charles Virolleaud, che ispezionò il luogo, raccolse alcuni cocci tralasciati dal contadino, fece dei disegni, e mandò il tutto a René Dussaud, conservatore del dipartimento orientale del Louvre. Dussaud, ottimo conoscitore della Siria, aveva già il sospetto che Minet el-Beida corrispondesse al Leukos Limèn descritto dai geografi greci, un centro commerciale e un crocevia di culture di grandissima importanza. Il ritrovamento confermò il suo sospetto. Dussaud convinse l’Académie des Inscriptions a organizzare una spedizione, e nella primavera del 1929 gli scavi poterono iniziare. Capo della spedizione fu nominato un giovane archeologo di Strasburgo, Claude Schaeffer, che messosi al lavoro, subito riportò alla luce i resti di un’antica necropoli, con un gran numero di oggetti, anche preziosi. In seguito Schaeffer spostò gli scavi di circa un chilometro verso l’interno, su una collina che sorgeva isolata tra due fiumiciattoli, e che faceva pensare ai Tell mesopotamici. La località era detta Ras Shamra. Si scoprì subito che Minet el-Beida era in realtà la necropoli di una città vasta e importante, dalla lunghissima storia, che si trovava proprio sotto il Tell di Ras Shamra. Sul pendio che guardava verso la baia, Schaeffer scoprì i resti di un grande edificio che era stato distrutto dal fuoco, e numerosi oggetti, tra cui statue egizie, che permettevano di datare il ritrovamento al periodo in cui la Siria era stata dominata dai Faraoni. Lungo il lato orientale di questo edificio, il 14 maggio, furono trovati parecchie stanzette, una delle quali, una biblioteca, conteneva decine di tavolette d’argilla. In quella prima stagione di scavi le tavolette ritrovate furono circa 50; negli anni successivi il numero crebbe notevolmente sino al 1953, quando lo stesso Schaeffer, scavando il Palazzo reale, trovò gli archivi principali della città. Virolleaud esaminò subito le tavolette, che si rivelarono simili a quelle di Tell el-Amarna: scritte in akkadico, si riferivano prevalentemente alle relazioni diplomatiche della città con i grandi Imperi che la circondavano, ma contenevano anche testi lessicali, religiosi, legali, più o meno come le altre biblioteche coeve di Assiria e Babilonia. La maggior parte delle tavolette, scritte in cuneiforme e simili alle altre tavolette akkadiche, si rivelava tuttavia illeggibile, scritta in una lingua del tutto ignota, e con un sistema di segni formalmente cuneiforme, ma profondamente diverso nella struttura dalle altre scritture mesopotamiche. Virolleaud capì subito che la scrittura non impiegava più di trenta segni: si era dunque alla presenza di un vero e proprio alfabeto. La scoperta era sensazionale: si pensava sino a quel momento che l’alfabeto fosse stato inventato dai fenici, agli inizi del primo millennio, e le scoperte di Petrie nel Sinai non avevano modificato questa certezza. Ora si trovava un alfabeto cuneiforme, circa tre-quattro secoli più antico dei più antichi alfabeti conosciuti: dunque l’alfabeto era stato inventato dagli scribi di Ras Shamra. In seguito si sarebbero scoperte in Siria e in Palestina altre scritture alfabetiche, ancora più antiche: l’alfabeto non fu quindi inventato a Ras Shamra, ma era già diffuso in una zona relativamente ampia, tra le popolazione che con termine generico si definiscono cananee, intorno alla

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metà del secondo millennio. Nel 1929, di fronte a quelle tavolette misteriose, ci si preoccupò soprattutto di riuscire a leggerle: cosa apparentemente non facile, perché lingua e scrittura erano entrambe sconosciute. Scheaffer e Virolleaud non si preoccuparono di tenere per sé le scoperte. Già nel 1929 una precisa riproduzione dei testi fu pubblicata sulla rivista «Syria», e messa disposizione degli studiosi. Il lavoro di decifrazione fu singolarmente facilitato da un altro ritrovamento di Schaeffer. Proprio ai piedi della scala che portava alla biblioteca era stato rinvenuto un gruppo di ben 74 tra armi e utensili di bronzo. Cinque asce attirarono subito l’attenzione degli studiosi, perché su esse erano ben visibili delle scritte cuneiformi, che avevano tutta l’aria di appartenere alla stessa lingua delle tavolette. Sulle cinque asce ricorrevano spesso i medesimi segni. Sin dal primo articolo su «Syria», Virolleaud fu in grado di avanzare alcune ipotesi che si rivelarono poi corrette. Innanzi tutto egli stabilì che si era alla presenza di una scrittura alfabetica, e in secondo luogo che le brevità delle parole, composte in genere da tre o quattro lettere, escludeva che la lingua fosse di tipo “miceneo”, greca o cipriota. Quanto alle scritte sulle asce, Virolleaud citò una punta di freccia trovata a Sidone con un’iscrizione fenicia, in cui si leggeva “hets addo”, ovvero “freccia di Addo”. Era possibile che anche sulle asce fosse presente una scritta di questo tipo: allora la prima parola, quando era presente, doveva leggersi “ascia”, e la seconda, presente su tutte le cinque armi era il nome del proprietario. Si era inoltre trovata una tavoletta in cui era presente questo secondo nome, preceduto da un singolo segno, probabilmente una preposizione: un tal caso il confronto con l’Akkadico poteva far pensare di essere alla presenza di una lettera, che iniziava con la preposizione “a” e con il nome del destinatario. Sulla base di questi dati si misero al lavoro tre studiosi: lo stesso Virolleaud, padre Edouard Dhorme1 dell’École Biblique di Gerusalemme e Hans Bauer,2 professore di semitico a Halle. I risultati non si fecero attendere. Bauer ricevette l’articolo di Virolleaud il 22 aprile 1930, il 27 aprile era già riuscito a decifrare quasi interamente la scrittura, e il 28 dava notizia della sua scoperta a Dussaud; il 15 maggio inviò un articolo preliminare, Das Alphabet von Ras Shamra, al quotidiano «Vossische Zeitung», che lo pubblicò il 4 giugno3. Virolleaud lesse una relazione all’Académie des Inscriptions il 3 ottobre dello stesso anno, e la pubblicò su «Syria» l’anno successivo. Dhorme pubblicò due articoli4 nel 1930 e nel 1931. E’ di estremo interesse seguire, almeno nelle parti essenziali, i diversi modi secondo cui i tre decifratori operarono.

1 Dhorme era esperto di crittografia, e durante la prima guerra mondiale aveva lavorato a Salonicco per i servizi segreti francesi, guadagnandosi anche una medaglia. 2 Hans Bauer (1878-1937) era studioso sia di lingue orientali (cinese e malese), sia di lingue semitiche, e aveva scritto grammatiche dell’ebraico e dell’aramaico. 3 Un questo articolo Bauer si limitava a indicare i punti principale delle proprie ricerche; il lavoro principale apparve lo stesso anno con il titolo Entzifferung der Keilinschriften von Ras Shamra, Halle, 1930. 4 E. DHORME, Un nouvel alphabet sémitique, «Revue Biblique», n. 39, 1930 e Première traduction des textes phéniciens de Ras Shamra, ibid., n. 40, 1931.

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Bauer, da linguista e semitista, preferì procedere in modo teorico. Egli partì dal presupposto che nelle lingue semitiche lettere singole possono essere prefissi, suffissi o parole monosillabiche. Esaminando i molti testi di Ras Shamra, egli stese un elenco dei segni che si presentavano appunto in questa forma. Otto segni in particolare si trovavano usati come prefissi:

mentre sei erano usati come suffissi:

e infine quattro erano usati per parole monosillabiche:

. Come si vede benissimo, due segni, sono presenti nelle tre classi, mentre tutti i sei segni della seconda classe sono presenti anche nella prima.

Esaminando tuttavia le ricorrenze, Bauer calcolò che i due segni ricorrevano con particolare frequenza. Come i lettori di Edgar Allan Poe ricorderanno, purché il testo sia sufficientemente lungo, è molto facile decrittare uno scritto in codice se il crittografo si è limitato a sostituire ogni lettera con un segno diverso, come fanno a volte i bambini per gioco: in ogni lingua infatti la frequenza con cui ogni lettera ricorre è ben determinata, e basta calcolare le frequenze dei singoli segni per ottenere una chiave di decifrazione. Dalla conoscenza delle lingue semitiche Bauer poteva affermare che i suoni più usati nei prefissi erano aleph, y, m, n, t, b, h, w, k, l; che i suoni più frequenti nei prefissi erano h, k, m, n, t, w, y; e che le parole monosillabiche più usate erano l, m, b, k, w. Collocando queste ricorrenze in una tabella, si poteva dedurre che i suoni usati con maggior frequenza nelle tre classi sono w, m; e che i suoni usati con maggior frequenza nelle prime due classi sono n, t.

La conclusione era ovvia: i segni dovevano corrispondere uno al suono w,

l’altro al suono m; e i segni uno al suono n, l’altro al suono t. Il procedimento logico era assai elegante. Sfortunatamente solo la seconda delle due conclusioni era esatta, e la prima totalmente sbagliata. Su queste basi Bauer proseguì nella decifrazione, a volte con buoni risultati, altre volte accumulando errori su errori. Virolleaud procedette in modo più empirico, ma con risultati nettamente migliori.

Egli cominciò con supporre che la lettera , che nella tavoletta già da lui esaminata precedeva il nome presunto del destinatario della lettera fosse la preposizione “a”, in

ebraico ל, corrispondente, sia in ebraico, sia in fenicio, al suono l. Ora, due parole fenicie contenenti il suono l che era probabile trovare nei testi scritti di Ras Shamra potevano essere “re”, mlk, e il nome del dio “Baal”, b‘l. Virolleaud trovò due parole trisillabe che

avevano il segno nella giusta posizione, rispettivamente al secondo e al terzo posto:

e . Non solo, ma per la prima esisteva anche la forma

e per la seconda la forma . Si poteva supporre allora

che corrispondesse a mlkm, plurale di “re” e che il segno dopo la parola b‘l fosse una t, per formare il femminile b‘lt, “signora”, “padrona”. Questo

permetteva di leggere il bisillabo bt, “casa” (bath), oppure “figlia” (bayt), che ricorreva spesso nei testi. E così di seguito, ipotizzando e verificando le diverse possibilità, sino a giungere a un sistema del tutto coerente.

Dhorme partì invece dalle ipotesi di Bauer, che confrontò con le scoperte di

Virolleaud. Bauer aveva proposto come traslitterazione di “ascia”, , grzn, in cui la prima e la terza lettera erano sbagliate, ma la seconda e la quarta corrette (grzn è in effetti il nome ebraico per ascia, ma nel dialetto di Ras Shamra la parola suonava

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invece hrsn). Dhorme cercò di leggere il nome del personaggio che quelle asce aveva

posseduto, e fece propri i valori di Bauer: per colmo di fortuna, nel nome del proprietario erano presenti le due lettere indovinate dallo studioso tedesco, ma non quelle su cui si era sbagliato. Questo nome era stato erroneamente letto da Bauer rbwhnk. Delle sei lettere che lo formavano, Dhorme aveva a disposizione la prima (r, da Bauer), la seconda (b da b‘l e da bt secondo Virolleaud), la terza (k da mlk), la quinta (n, da Bauer) e la sesta (m, da mlk). Gli mancava solo la quarta; lesse allora rbk?nm, e suppose di essere alla presenza di un titolo piuttosto che di un nome proprio: ipotizzando allora che la lettera mancante fosse h, era lecito pensare che la parola fosse rb khnm, ovvero “capo dei preti”. Sarà inutile proseguire con ulteriori dettagli. La decifrazione dell’alfabeto ugaritico, dopo i primi lavori di Virolleaud, Bauer e Dhorme, presentava ancora qualche lacuna, ma ben presto ulteriori scoperte di Scheffer misero a disposizione degli studiosi nuovi testi in quantità, molti dei quali esercizi scolastici bilingui, e fu possibile leggere le tavolette senza problema. Sarà utile piuttosto sottolineare che la decifrazione dell’ugaritico avvenne con una straordinaria collaborazione tra gli studiosi e senza nessuna polemica tra essi, a tal punto che è difficile dire a chi vada attribuito principalmente il merito del lavoro. Rimaneva aperto ancora un problema: a quale città antica corrispondeva Ras Shamra ? Schaeffer suppose dapprima, sul fondamento di un’iscrizione geroglifica trovata su una stele egizia dedicata al “Baal di Sapuna” che Sapuna o Saphôn1 fosse appunto il nome della città. A questa ipotesi si oppose W. F. Albright, che in una nota di un articolo2 pubblicato nel 1931 sostenne per primo come altamente probabile l’identificazione dei sito scoperto da Schaeffer con la città di Ugarit, citata ben sei volte nell’archivio di Tell el-Amarna. Poco dopo l’ipotesi fu confermata dal ritrovamento di tavolette in cui ci si riferiva esplicitamente alla città con il nome di Ugarit, che da quel momento fu universalmente adottato. L’alfabeto ugaritico è di grande importanza sia per i testi che ci ha trasmesso, relativi a un’importante civiltà scomparsa all’improvviso nel nulla intorno al 1200 (forse per un terremoto, più probabilmente per un’invasione dei Popoli del Mare), sia per la sua intrinseca struttura. Se lo si esamina da vicino, esse sembra essere stato costruito secondo un disegno estremamente razionale, con il preciso scopo di usare il minor numero di tratti possibili (esattamente al contrario di quanto abbiamo visto essere accaduto per il cuneiforme akkadico e per il geroglifici egizi). Trascriviamo qui i trenta segni dell’alfabeto (nella prime due colonne compaiono fonts diverse del medesimo segno – nel nostro testo abbiamo impiegato i caratteri che compaiono nella seconda colonna, assai più chiari, anche se meno simili ai segni delle tavolette originali).

1 In realta Saphôn è il nome dell’Olimpo presso i Cananei. 2 W. F. ALBRIGHT, The Syro-Mesopotamian God Šulmân Ešmûn and Related Figures, «Archiv für Orientforschung», VII, 4, 1931.

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a a h j D G e e † T p p

u u y y ß x

b b k k Ω Z

g g l l q q

d d m m r r

H h n n s C

w w S s © c

z z c S t t

˙ H o ` i D

E’ interessante notare che questo alfabeto non sembra essere il frutto

di una lunga evoluzione, ma piuttosto un’invenzione artificiale, opera di un singolo scriba o di una classe di scribi, allo scopo di usare il comodo sistema cuneiforme (impressione di segni su argilla molle, anziché tracciatura di segni su un supporto) per un alfabeto. Da una tavoletta scolastica scoperta nel 1949, in cui i segni ugaritici sono elencati secondo l’ordine dell’alfabeto fenicio (che in sostanza è ancora il nostro), si deduce che nel momento in cui l’alfabeto ugaritico fu creato, intorno al 1400, era già diffuso un alfabeto di tipo fenicio o cananeo. E’ quindi da escludere, come alcuni studiosi pensarono in un primo tempo, che l’alfabeto sia stato inventato proprio a Ugarit, ed è forse più esatto dire che gli scribi di Ugarit, con grande senso pratico, presero il meglio da due sistemi esistenti, il modo di imprimere i segni dai popoli mesopotamici, e l’alfabeto dai Fenici e Cananei. L’alfabeto ugaritico ha otto segni in più rispetto all’alfabeto fenicio e sette in più rispetto all’ebraico (in questo è più prossimo ad altre scritture semitiche, ad esempio all’arabo). In particolare l’alfabeto ugaritico ha tre ulteriori segni per l’aleph, con valore vocalico rispettivamente a, i u. Probabilmente i segni

supplementari , così come il secondo segno impiegato per la s (del quale non si conosce esattamente il valore fonetico) furono aggiunti in un secondo tempo a un alfabeto iniziale di 27 lettere. La scrittura va da sinistra a destra, nello stile akkadico (qualche tavoletta è però scritta da destra a sinistra, alla maniera cananea). Spesso le parole sono divise tra loro da un tratto verticale. Non sappiamo perché ad ogni lettere sia stato attribuito un certo segno: se cerchiamo di mettere i segni in un ordine logico, per complessità, per numero di tratti, per forma, osserviamo che essi non corrispondono all’ordine alfabetico. E possibile che i segni più semplici da tracciare, con

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un minor numero di tratti fossero anche i più frequentemente usati, ma in proposito non si può dire nulla con certezza.

I testi che è stato possibile leggere dalle tavolette di Ugarit si sono rivelati di straordinario interesse. Prima degli scavi a Ras Shamra la letteratura cananea e fenicia era considerata perduta per sempre, con l’esclusione di pochi frammenti citati da Eusebio.1 La conoscenza della letteratura, dei miti, della religione cananee potevano invece rivelarsi importantissime per comprendere l’origine di molti testi biblici tardi, come i Salmi o il Libro di Giobbe. Ma anche il libri biblici più antichi avrebbero potuto attingere a fonti assai più antiche, e alle tradizione dei popoli che prima degli ebrei avevano popolato la Palestina. Quando fu possibile leggere le tavolette di Ugarit, sembrò che fosse possibile dare una risposta a questi interrogativi, e alcuni studiosi, tra cui lo stesso René Dussaud, 2 ritennero che fosse ormai possibile identificare le origini dei principali racconti biblici. Calmatisi gli entusiasmi, si poté stabilire che la letteratura dei Cananei, senza essere la progenitrice della letteratura ebraica, aveva comunque una notevole complessità, e che molti dei suoi temi furono ripresi nella Bibbia. Come ha scritto Leo Deuel:

Da un punto di vista linguistico, la sua stretta affinità con l’ebraico prometteva di far fare enormi progressi alla conoscenza del vocabolario biblico e di chiarire il significato di parole ebraiche interpretate in modo erroneo o di significato ancor dubbio. Alcuni passi dell’Antico Testamento, di cui gli studiosi non erano mai riusciti a penetrare perfettamente il senso, si rivelarono presi di peso da testi cananei; lo stesso si dica per metafore, epiteti, allusioni mitologiche rimaste sempre oscure, e adesso illuminate dai loro corrispondenti cananei. Nel caso di emendamenti e sostituzioni introdotti da moderni critici e traduttori della Bibbia, l’uso ugaritico funse più volte da controllo; in alcuni casi in cui gli studiosi avevano proposto ingegnose modifiche del testo o del significato, le fonti ugaritiche dimostrarono che il testo tradizionale era più vicino all’originale. I testi cananei, più antichi e informati a una concezione politeistica, e le scritture ebraiche, monoteistiche, sono strettamente imparentati e nello stesso tempo in un rapporto di forte opposizione: la letteratura cananea influenzò l’ebraismo e nello stesso tempo ispirò un antagonismo violento. 3

Purtroppo le tavolette di Ugarit ci sono giunte molto spesso allo stato di frammenti, ed è difficile ricostruire in modo organico la letteratura che contengono. I testi più importanti si riferiscono a storie di dèi, soprattutto Baal (una decina di tavolette assai danneggiate) e di eroi. Tra questi ultimi, la storia di Keret è narrata da tre tavolette frammentarie del XIV o XIII secolo, opera dello scriba Ilu-milku, e quella di Aqhat (o di Danel, nome di suo padre) da tre tavolette, esse pure incomplete, scritte nel XIII secolo dal sacerdote Elimelek.

1 Eusebio si riferisce a uno storico fenicio, Filone di Biblio, e sulla sua testimonianza cita un misterioso poeta fenicio, Sancuniatone. 2 RENE DUSSAUD, Les Découvertes de Ras Shamra – Ugarit et l’Ancien Testament, Paris, 1937. 3 LEO DEUEL, Testaments of Time, New York, 1965, trad it. Cacciatori di libri sepolti, Milano, 1968, pp. 228-29.

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Fenicio, ebraico e aramaico

Come abbiamo già visto, dalla scrittura protocananea nasce tutta una serie di altre scritture alfabetiche. Intorno al 1300 prende forma la scrittura protoarabica, da cui derivano la scrittura sud-arabica e poi l’etiopico. Più tardi, intorno al 1100 nasce da essa la scrittura greca arcaica, da cui deriveranno poi le scritture greca e latina. Più o meno nello stesso periodo, tra il 1100 e il 1000 la scrittura proto-cananea perde gli elementi pittografici che la caratterizzano, diventando lineare: nasce così quella che definiamo scrittura fenicia, da cui deriva, intorno al 900-800 il paleoebraico. Poco dopo, tra l’800 e il 700 nasce l’aramaico, che a sua volta darà origini alle scritture più importanti: il nabateo, da cui deriva l’arabo moderno, l’ebraico quadrato, la siriaca, la palmirena, e molte altre usate in ambito mesopotamico. Ebraico Conquista della Palestina nel XII secolo Per due secoli gli ebrei scrivono in Fenicio (Cananeo) - Il calendario di Gezer, il documento ebraico più antico è in sostanza in Fenicio, per scrittura e per lingua Stele di Mesha, re di Moab, IX secolo, è il primo documento in cui l’ebraico si stacca dal fenicio. Non esiste nulla di precedente dall’VIII secolo la scrittura si diffonde, anche con l’uso del papiro particolarmente importanti gli oistraka. Con la distruzione del Tempio e l’esilio a Babilonia (587) gli ebrei vanno a Babilonia. Babilonia è poi conquostata dai Persiani di Ciro II nel 539. Si diffonde l’Aramaico, e anche gli ebrei si convertono a questa lingua e a questa scrittura. Quando gli ebrei ritornano a partire dal 538 parlano ormai aramaico. Il paleoebraico rimane solo presso i Samaritani, che lo usano ancora oggi.

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Calendario di Gezer. Molto simile alle iscrizioni fenicie di Byblos. Nessun carattere tipicamente ebraico è distinguibile

Iscrizione del re Mesha di Moab. Del IX secolo. E’ la prima in cui siano evidenti caratteristiche ebraiche.

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Iscrizione nella galleria di Siloe, VIII secolo. Per rifornire d’acqua Gerusalemme in caso di un prevedibile assedio da parte degli Assiri, Ezechia (725-697) fece costruire una galleria che portava l’acqua dalla fonte di Gihon, fuori dalle mura, sino alla cisterna di Siloam. Secondo l’iscrizione gli operai iniziarono i lavori dalle due parti e si incontrarono a metà “ogni uomo di fronte al suo corrispondente, ascia contro ascia”. In realtà le due parti della galleria non coincidono perfettamente. La galleria fu scoperta nel 1838 e studiata da molti archeologi nell’Ottocento, ma l’iscrizione, nascosta da detriti, fu scoperta solo nel 1880. Nel 1891 l’iscrizione fu rimossa di nascosto dalla parete, e si ruppe in frammenti, che gli inglesi riuscirono a recuperare, collocandoli poi al museo archeologico di Istambul, dove ancora si trovano. L’iscrizione è da collocare poco prima del 701, data in cui appunto Gerusalemme fu assediata da Sennacherib. Si cominciò a scavare la galleria da entrambe le parti, perché si aveva molta fretta di finire il lavoro prima che l’asssedio cominciasse. L’iscrizione celebra l’abilità degli ingegneri, che riuscirono a incontrarsi pur procedendo da due lati opposti. Si noti che la galleria non è diritta, ma a forma di S, e che quindi l’impresa fu notevole. Arrivati a una cinquantina di metri l’una dall’altra, le due squadre apportarono una serie di correzioni al tracciato dello scavo, che infatti nella parte centrale è tortuoso, sinché arrivati a portata di voce, poterno finalmente incontrarsi. All’epoca dell’esilio in Babilonia l’antico ebraico (fenicio) è sostituito dall’aramaico. I rabbini lo sostengono perchè lo dicono introdotto da Ezra La vecchia scrittura rimane come spunto nazionalistico e presso i samaritani Qumran

Molte incertezze sulla scoperta, i racconti divergono. Nel 1946-47 – la data esatta è ignota – tre giovani beduini che

pascolavano pecore o capre nella zona tra la sponda occidentale del mar morto e le colline della Giudea, un luogo assolutamente desertico, uno dei

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tre scoprì una caverna sembra inseguendo una capra. Guardò dentro dall’alto e vide delle giare. Ritronato cin i compagni e vinta la paura degli spiriti (che come è noto di solito sono rinchiusi appunto in giare), entrò nella caverna, vide che le giare erano 10 e ne aprì una trovandovi cinque oggetti, alcuni dei quali avvolti in tela. Tornati al campo aprirono i pacchi e scoprirono che essi erano formati da lunghe striscie di pelle ricoperte di scrittura. questi non avevano per essi alcun uso e se le portarono con sé parecchio tempo, sino a che, giunti a Betlemme, le vendettero ad un rigattiere, certo Khalil Iskander Shahin, detto Kando. Questi aveva anche una bottega di ciabattino, e probabilmente li acquistò per riparare scarpe. Ma in giorno, incuriosito dalla scrittura, li portò al Monastero di san Marco, appartente alla Chiesa Siriaca, il cui metropolita, Mar Athanasius Yeshua Samuel, fu molto interessato. Forse insieme si recarono sul sito, e trovarono altre rotoli, che diventarono in tutto 7. Il Metropolita ne acquistò 4 acquistò per 24 sterline, senza ancora sapere di cosa si trattasse. A questo punto Kando contattò un professore dell’Università ebraica di Gerusalemme, Eleazar Sukenik, che nel novembre 1947 si recò a Betlemme e comperò gli altri tre rotoli, cercando iinutilmente di comperare anche gli altri 4 proprietà del Metropolita. Nel frattempo il Metropolita fece esaminare i rotoli dall’American School of Archeological Research, nella parte giordana di gerusalemme. I rotoli furono fotografati da un giovane studioso, John Trever, e si cominciò a sospettare che fossero molto antichi, anche perché essi erano molto simili al famoso papiro Nash. Alla fine fu consultato Albright a Baltimore, il quale confermò l’importanza della scoperta: i rotoli appartenevano al periodo di Giuda Maccabeo e di Erode, che era anche il periodo di Gesù.

Il metropolita portò i suoi rotoli negli Stati Uniti, e li mise in vendita con un annuncio sul Wall Street Journal nel 1954. Li comperò anonimamente l’appena nato steto di Israeli, e li riunì così agli atri tre di Sukenik. Questi sette rotoli furono pubblicati abbastanza in fretta, e sono ora visibili al Museo di Gerusalemme.

Nei dieci anni successivi si scatenò la caccia alle grotte e ai manoscritti. Esse erano ormai in territorio Giordano.

Furono scoperti circa 800 tra manoscritti e frammenti, in ebraico, aramaico e greco, da ben 11 grotte, situate tutte nella zona, non lontano da un sito archeologico noto come Qumran.

I rotoli di Q1 subito pubblicati: - due rotoli di Isaia - una guida per la vita in comune - una parafrasi di parte della Genesi - un commentario su Habakkuk - il racconto della guerra finale tra figli della luce e figli della tenebra - una raccolta di inni.

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Ci misero molto tempo a pubblicarli, e questo ha dato origine a polemiche e sospetti.

La pubblicazione è avvenuta tra 1988 e 1991, la traduzione in inglese nel 1994.

Ma è tutto ??

Nella grotta 3 è stato trovato il famoso rotolo di rame dei tesori, ora ad Amman.

\Molti dei rotoli sono ora al Museo ebraico di Gerusalemme, ma molti frammenti sono dispersi un po’ ovunque, anche in collezioni private. L’origine dalla Bibbia Tre domande dobbiamo porci a questo punto: Chi scrisse i vari libri della Bibbia e quando? Come materialmente sono stati scritti (lingua, scrittura, supporto, forma ecc.)? Attraverso quali vie e in quali modi questi libri sono pervenuti sino a noi ? Sono tre domande estremamente ardue, per rispondere alle quali sono state scritte intere biblioteche.

Cominceremo dal primo problema, precisando che non essendo questo un trattato di Filologia biblica, ma una semplice manuale di Bibliografia, ci limiteremo ad affrontarlo allo scopo di dare una collocazione temporale e geografica ai vari testi biblici, ripercorrendo al tempo stesso le tappe attraverso cui si è pervenuti a questa collocazione. Va anche sottolineato che gli studi biblici sono in continua evoluzione, e che le ipotesi a cui noi ci atteniamo, condivise dalla maggior parte degli studiosi, sono state, anche recentemente, poste in discussione.1

I cinque libri del Pentatueco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) sono sempre stati dalla tradizione attribuiti a Mosé, anche se in nessun luogo della Bibbia questa attribuzione compare in modo esplicito.

Datare il periodo in cui visse Mosé equivale a datare l’esodo, ossia la fuga del popolo ebraico dall’Egitto. Su questa datazione le opinioni non concordano: alcuni pensano agli anni che immediatamente seguirono la cacciata degli Hyksos, quindi alla metà del XVI secolo, altri ad un periodo 1 Ci siamo attenuti principalmente alla voce Torah (Pentateuch) redatta da RICHARD ELLIOTT FRIEDMAN per il monumentale Anchor Bible Dictionary edito da DAVID NOEL FREEDMAN, New York, Doubleday, 1992, vol. VI. Ma nello stesso dizionario le voci dedicate ai singoli autori, ad es. Yahvist (“J”) source, redatta da ALBERT DE PURY, riflettono opinioni diverse.

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più recente. Un’ipotesi sostenuta da molti è che il faraone biblico fosse Ramesse II (XII secolo), perché nell’Esodo si dice esplicitamente che gli ebrei lavorarono alla costruzione delle due città da lui fondate nel Delta del Nilo, Pithom e Rameses. Altri pensano ad un periodo ancora più tardo, e fanno coincidere l’esodo con gli attacchi a cui l’Egitto fu sottoposto (circa 1175) durante il regno di Ramesse III da parte dei popoli del mare (i Filistei). Qualunque ipotesi si accetti, Mosé va collocato ad una data piuttoso antica, nel secondo millenio. A questa data gli ebrei conoscevano la scrittura ? Il problema va approfondito.

L’attribuzione dei cinque libri del Pentateuco a Mosé è tuttavia contraddetta da una serie di dati, primo fra tutti il fatto che al termine del Deuteronomio è narrata la morte di Mosé stesso. Si notò inoltre abbastanza presto che il testo del Pentateuco presenta molte contraddizioni interne, e che in esso si parla di cose che Mosé non avrebbe potuto conoscere. I commentatori della Bibbia, sia cristiani (ad esempio Origene), sie ebrei (ad esempio Rashi e Nachmanides) difesero tuttavia l’idea del Pentateuco interamente scritto da Mosé e studiarono spiegazioni, a volte ingegnose, a volte arzigogolate, per giustificare i passi che potevano far nascere dubbi.

Negli anni del tardo Medio Evo e del Rinascimento molti studiosi cominciarono però a sottolineare queste contraddizioni. Alcuni, come Abraham ibn Ezra, nel XII secolo, conclusero semplicemente che era meglio non parlare della cosa, altri (Andreas van Maes, Pereira, Bonfrère) pensarono invece ad interpolazioni e a modifiche dell’originale testo mosaico ad opera di editori più tardi.

Per primo, nel Seicento, Thomas Hobbes negò decisamente che Mosé fosse l’autore del Pentateuco, elencando molte frasi che rendevano impossibile questa attribuzione. Le sue orme furono seguite da Isaac de La Peyrère e dal grande Spinoza, il quale affermò decisamente che i cinque libri dovevano essere opera di un autore vissuto molto tempo dopo Mosé. Negli stessi anni Richard Simon, partendo dal problema della cronologia, diede inizio ad un esame critico dell’intera Bibbia, affermando che gli autori del Pentateuco avevano scritto la loro storia assemblando fonti più antiche.

Questa idea di Simon fu giustificata dalla costatazione che molte storie bibliche sono narrate due volte, spesso in termini diversi. La risposta dei tradizionalisti, che questi doppioni erano complementari, e che le contraddizioni erano solo apparenti, apparve sempre meno soddisfacente. Tre studiosi del Settecento, indipententemente l’uno dall’altro (Henning Bernhard Witter in Germania, 1711, Jean Astruc in Francia, 1753 e Johann Gottfried Eichorn ancora in Germania, 1780) cominciarono ad indivuduare nel testo due diversi autori, uno che usava per la divinità il nome Yahveh, l’altro il nome Elohim (Dio).

Nell’Ottocento si fece un’ulteriore osservazione: in molti casi la stessa storia non era narrata due volte, ma tre. Inoltre un tedesco, W. M. L.

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De Wette, scoprì che il Deuteronomio è linguisticamente assai diverso dai quattro libri che lo precedono. Con questo gli autori del Pentateuco diventavano ben quattro. Il problema era identificarli e definirne l’apporto.

Si cominciò con l’attribuire a ciascuno di questi autori una sigla: J contrastingue le parti di colui che usa per Dio l’appellativo Yahveh (Jeovah in tedesco); E quelle dello scrittore che lo chiama Elohim; P contrastingue le parti del terzo autore, le più ampie (P sta per “Prete, Priest”, essendo questo autore particolarmente interessato a problemi liturgici e alle leggi); l’autore del Deuteronomio fu contraddistinto dalla lettera D. Colui che mise insieme tutti questi scritti, il redattore, fu unfine contraddistinto con la sigla R.

Due studiosi, fortemente influenzati dall’idea hegeliana dello sviluppo storico delle religioni, confrontarono tra loro la serie dei testi e cercarono di mettere in ordine cronologico i quattro autori. Karl Heinrich Graf studò soprattutto le dipendenze interne dei testi, mentre Wilhelm Vatke cercò di determinare a quale stadio di sviluppo della religione ciascuno di essi apparteneva: J ed E rispecchiavano uno stadio più antico, una religione della natura e della fertilità, D uno stadio medio, una religione di tipo etico-spirituale, P infine uno stadio tardo, una religione fondata sui riti e sulle leggi. Alle stesse conclusioni arrivava anche Graf, ed entrambi collocavano i quattro autori in un’epoca molto posteriore a Mosé.

Queste idee furono rielaborate e trasformate in un’ipotesi coerente e ben costruita da Julius Wellhausen (1844-1918), che nel suo famoso libro Prolegomena zur Geschichte Israels, 1885, propose quella che da allora è nota come “ipotesi documentaria”. Wellhausen riprese tutti gli studi precedenti, e li ricompose in una forma solida e scientificamente fondata, che da allora è rimasta strettamente legata al suo nome.

La critica biblica fu per molti anni avversata dalle istituzioni religiose. Spinoza fu espulso dalla cominità ebraica, William Robertson Smith, divulgatore di Wellhausen in Inghilterra, perse la propria cattedra ad Aberdeen, le opere di Richard Simon furono bruciate, Wellhausen stesso abbandonò l’insegnamente temendo che le sue idee potessero minare la fede degli allievi. Recentemente il panorama è completamente cambiato. L’enciclica Divino afflante spiritu di Pio XII, nel 1943, ha esplicitamente incoraggiato gli studiosi a determinare le circostanze in cui le Sacre Scritture furono composte, il contributo di ciascun autore, le fonti a cui essi attinsero. In effetti, come ha ben dimostrato Richard Elliott Friedman nell’ultimo capitolo del suo libro Who wrote the Bible?,1 sapere che il testo biblico è opera di diversi autori, che lavorarono in tempi e modi diversi, assemblando a volte documenti preesistenti, non impedisce affatto, se lo si ritiene, di leggere la Bibbia come opera ispirata da Dio e portatrice di una verità religiosa trascendente.

1 RICHARD ELLIOTT FRIEDMAN, Who wrote the Bible?, San Francisco, Harper, 19972, pp. 234 e segg.

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Con ogni probabilità J apparteneva al regno di Giuda, probabilmente con l’uso di fonti più antiche. Caratteristiche di J sono una visione antropomorfa della divinità, e il maggior rilievo dato alle storie e ai personaggi che in qualche modo sono legati al regno di Giuda; per contro non mancano allusioni negative ai personaggi della storia di Israele: ad esempio l’acquisizione della città di Shechem, costituita da Jeroboam capitale del regno del Nord, avviene attraverso il massacro dei suoi abitanti, mentre secondo E essa è semplicemente comperata, in modo pacifico. J ignora la caduta del regno di Israele, ed è quindi collocabile prima del 722. Per contro riflette la divisione tra i due regni, e quindi è da collocare dopo la morte di Salomone, nel 922. La storia di Giacobbe ed Esaù dimostra inoltre che J conosce l’indipendenza di Edom, avvenuta durante il regno di Jehoram (848-42). Di conseguenza il termine a quo potrebbe essere abbassato all’848.

E sembra invece appartenere al regno di Israele, tra il 922 ed il 722.

Difficile essere più precisi. E sottolinea la comunicazione di Dio con l’uomo attraverso angeli e sogni, e dà rilievo alle profezie. Probabilmente è legato ai gruppi dei preti di Shiloh, discendenti da Mosè (mentre i sacerdoti di Gerusalemme discendevano da Aronne), dedica più spazio a personaggi e vicende legati alla storia delle tribù del Nord, polemizza con Salomone a la sua politica accentratrice, considera particolarmente importante Mosé e sminuisce il ruolo di Aronne. Mosé era considerato l’antenato dei sacerdoti di Shiloh, nel Nord, la città in cui prima di Salomome erano conservati Arca e Tabernacolo, la città di Samuele, la città di Abiathar, il sacerdote che a suo tempo aveva sostenuto Adonijah contro Salomone ed era stato per questo esiliato. I sacerdoti di Gerusalemme discendevano invece da Zadok, rivale di Abiathar, che a sua volta discendeva da Aronne.

Quando, nel 722, il regno di Israele fu conquistato dagli Assiri la

popolazione sopravvissuta ai massacri e alle deportazioni cercò rifugio a Gerusalemme, portando probabilmente con sé i propri libri sacri, nella fattispecie il testo di E. I sacerdoti di Gerusalemme si trovarono allora alle prese con due diverse versioni di un’unica storia: in certi punti queste versioni coincidevano, in altri si completavano, in altri differivano, ma non in modo drammatico. Privilegiare J poteva condurre all’emarginazione degli immigrati dal Nord, che invece era opportuno inserire nel regno di Giuda. Lasciare entrambi i testi, paralleli, poteva sancire la separazione definitiva tra le due comunità, ciascuna con un proprio libro sacro. Ciascun testo avrebbe poi inevitabilmente sminuito l’autorità dell’altro. D’altra parte certi episodi (ad esempio la storia del vitello d’oro) erano presenti solo nella versione di Israele, ed appariva difficile ignorarli. Si decise così di fondere i due testi in un’unica narrazione, semplicemente giustapponendo i passi che si riferivano alla stessa vicenda. In questo modo il racconto era più completo; per contro le ripetizioni e le discrepanze non sembravano dare

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particolare fastidio, nell’ambito di una cultura abituata alla ridondanza letteraria.

Nel 622, durante il regno di Josiah, il gran sacerdote Hilkiah scoprì nel Tempio un vecchio rotolo. Secondo De Wette si trattò di una messa in scena: Josiah intendeva avviare una politica di profondo rinnovamento religioso, e questo “ritrovamento” poteva fornirgli un eccellente aiuto.

L’ipotesi di De Wette non è però convincente. Nel 1943 Martin Noth ha dimostrato che il Deuterononio e i sei libri successivi (Giosué, Giudici, Samuele 1 e 2, Re 1 e 2) sono stilisticamente e linguisticamente affini. I sette libri formano insieme una storia coerente, dall’arrivo degli ebrei nella terra promessa alla caduta di Gerusalemme. Il Deuteronomio è la premessa religiosa e legale agli altri libri, che hanno un carattere più specificamente narrativo.

La storia deuteronomica ha però una difficoltà: il covenant davidico. Dio promette a Davide, più volte, che un suo discendentente siederà sempre sul trono di Gerusalemme. E’ un patto incondizionato, indipendente dal fatto che ciascun discendente si comporti bene o male. Ma se l’autore scrive dopo il 587, questo è evidentemente un assurdo: non esiste più un trono a Gerusalemme, e non esiste nemmeno Gerusalemme. Dunque il patto non è stato mantenuto.

Si suppone perciò (Frank Moore Cross, 1973) che D vada sdoppiato in due editori Dtr1 e Dtr2, che appartengono allo stesso gruppo o addirittura sono la stessa persona. Dtr1 scrive durante il regno di Josiah: è ottimista, appoggia le riforme del re, ritiene che egli abbia dato un nuovo indirizzo al regno, e che questo possa durare per sempre. Dtr2 ha visto il regno dei successori di Josiah (morto nel 609 a Megiddo, trafitto da una freccia egiziana) ed il disastro del 587. Modifica perciò il vecchio testo, pur lasciandolo quasi totalmente intatto, aggiunge la parte sugli ultimi 35 anni, ed inserisce in vari punti riferimenti al vecchio covenant mosaico. In questo covenant, Dio promette a Mosè che i suoi discendenti prospereranno, se si manterranno a lui fedeli e non cesseranno di adorarlo. Altrimenti sanno puniti e distrutti. E’ dunque un patto condizionato, seguito da gravi minacce. E’ chiaro che il primo patto rende vano il secondo: sul trono di Gerusalemme ci sarà sempre un discendente di Davide, se questo trono esisterà. Nel caso specifico le colpe di Manasseh e di Amon sono state così gravi che nemmeno la pietà di Josiah, loro successore, è riuscita ad equilibrarle.

Baruch Halpern, nel 1974 ha dimostrato che i capitoli sulle leggi nel Deuteronomio non possono essere ispirati da un Re, perché limitano il suo potere in vari modi. Sembrano piuttosto corrispondere agli interessi dei Leviti, e riflettere addirittura una società premonarchica. Probabilmente furono scritti in un periodo qualunque durante la divisione dei due regni, molto prima del 622, da uno dei sacerdoti di Shiloh, come dimostra in loro atteggiamento negativo verso Aronne.

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R. E. Friedman attribuisce tutto D a Geremia o al suo scriba Baruch. Il lavoro di Dtr2 è stato a suo avviso una riformulazione della stessa storia, tenuto conto della conclusione tragica, la morte di Josiah in battaglia, e della caduta di Gerusalemme. Il codice delle leggi, nel Deuteronomio, sarebbe davvero il testo molto antico scoperto nel 622, e la revisione dei sette libri, cioè l’opera di Dtr2, dovrebbe risalire all’esilio di Geremia in Egitto, dopo il 587.

Più complesso è identificare P, il più importante di tutti gli autori, perché la sua opera equivale a quella degli altri tre messi insieme.

Per molto tempo, soprattutto in seguito alle affermazioni di Eduard Reuss, di Karl Graf e di Wellhausen, si è ritenuto che i profeti non citassero mai P, e che di conseguenza P divesse essere posteriore ai Profeti, collocabile quindi nel periodo del secondo Tempio. Questo significava attribuire il complesso sistema dei rituali e delle leggi ebraiche ad un periodo assai tardo, posteriore al ritorno dall’esilio. Poiche il Tempio non è mai citato in P, si pensò che i riferimenti al Tabernacolo (la tenda che custodiva l’arca durante il periodo del viaggio nel Sinai, e che fu poi collocata nel primo Tempio) dovessero intendersi come in realtà indicanti il Tempio. Il Tabernacolo sabbe stato da intendersi come una finzione, come simbolo del Secondo Tempio. Secondo questa visione la centralizzazione dei sacrifici nel Tempio non è presente in J ed E, perché in quei tempi lontani ognuno sacrificava dove voleva; è richiesta in D, che risale all’epoca di Josiah e alla sua riforma religiosa, appunto rivolta a centralizzare i sacrifici nel solo Tempio di Gerusalemme; non se ne parla più in P, perché ormai la centralizzazione è diventata fatto acquisito, in una Gerusalemme e in un Regno assai più piccoli.

Studi recenti hanno però messo in dubbio questa teoria. P è certamente un sacerdote, della stirpe di Aronne, attivo nel Regno di Giuda, con ogni probabilità a Gerusalemme, profondo conoscitore dei testi di J ed E. Come si è già visto, E fu portato a Gerusalemme dopo la caduta di Israele, nel 722. Ma il testo di E è fortemente filomosaico, e sminuisce o addirittura critica il ruolo di Aronne.

P decise dunque di riscrivere l’intera storia, rivalutando Aronne a scapito di Mosé, rivalutando la classe dei sacerdoti a scapito dei profeti, eliminando gli accenni ad un Dio antropomorfo, agli angeli, ai sogni, ai miracoli, tutti gli elementi insomma che risalivano ad uno stedio primitivo della religione ebraica.

Quando accadde questo? Friedman sottolinea che in più punti D, filomosaico, sembra polemizzare con P. Geremia addirittura accusa di menzogna gli scribi della Torah. Questo induce a collocare P tra il 722 ed il 609, morte di Josiah, probabilmente nell’epoca di Re Ezechia.

P si pone dunque come alternativa a JE, che intende sostituire. D polemizza con P e rivaluta Mosé. Ma paradossalmente qualche tempo dopo

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un quinto scrittore decise che occorreva mescolare tutti questi testi, ed unificarli. Questo scrittore è defino R, redattore. Egli non scrisse quasi nulla di proprio, ma si limitò a riarrangiare i quattro testi che aveva a disposizione in una storia omogenea. Era anch’egli con ogni probabilità un sacerdote discendente di Aronne, e quasi sempre assegna un ruolo privilegiato al testo di P (ad esempio le prime parole della Genesi). Egli utilizzò anche altre fonti, ad esempio il Libro delle Generazioni, spezzandole e mescolandole agli altri testi.

Alcuni (Cross) pensano che P e R siano la stessa persona, o almeno persone appartenente allo stesso gruppo. Altri (Friedman) collocano R ad un periodo più tardo, e lo identificano con Ezra, il profeta che riaccompagnò in Patria gli Ebrei portando con sé i rotoli della Torah. Questa ipotesi, collocando R negli anni del Secondo Tempio, recupera anche in parte le teorie tradizionali sulla collocazione tarda di P: P risale ai tempo di Ezechia, ma la sua versione finale, opera di R, è effettivamente successiva al ritorno dall’esilio.

R concilia le diverse versioni e le riporta senza preoccuparsi delle loro contraddizioni. Inserisce anche il Deuteronomio ed i sei libri successivi, costruendo così una narrazione ininterrotta dalla creazione sino alla caduta di Gerusalemme ed al ritorno dall’esilio. La versione del Pentateuco che oggi leggiamo è opera sua.

Gli ulteriori libri della Bibbia furono scritti ....

Le lettere dell’alfabeto

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Aleph deriva da ‘eleph, bue Bet deriva da bayt, casa Gimel deriva da gamal, cammello Dalet deriva da delet, porta He deriva da he’, un’interiezione che significa ecco, oppure certo Waw deriva da waw, uncino Zayn deriva da zayn, arma Het deriva da barriere, chiusura, cancello

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