Aspetti+socioculturali+del+patrimonio+territoriale_RenzettiPetrella
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Aspetti socio-culturali del patrimonio territoriale
Emanuela Renzetti, Andrea Petrella
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Universit degli Studi di Trento
Il concetto di patrimonio culturale ha subito negli ultimi decenni una vera e propria
rivoluzione, ha cio potuto includere e considerare degno di conservazione, ostensione e
valorizzazione quanto per lungo tempo era stato appannaggio esclusivo di gente comune,
spesso collocata nella gerarchia sociale piuttosto verso il basso e, altrettanto spesso,
territorialmente decentrata, lontana dal potere e dai gangli decisionali [Maggi e Dondona
2006].
Questa trasformazione radicale ha inciso profondamente sulle nostre concezioni, un
nuovo modello culturale si andato affermando, un modello che ci consente di
apprezzare oggetti che prima escludevamo come privi di valore, che ci fa ammirare
architetture che oggi definiamo tradizionali perch recuperate, ma che prima liquidavamo
come fatiscenti, che ci fa ricercare prodotti talvolta alla soglia dellartigianale che fino a
qualche anno fa non avremmo mai voluto acquistare proprio per leccessiva semplicit, o
rusticit.
Se oggi definiamo correttamente il patrimonio come linsieme delle vite e degli stili di vita
delle comunit di uomini e donne, siamo dunque anche disposti ad accogliere lidea che
non solo elementi materiali ma anche immateriali che appartengono a tali comunit
rappresentino una parte importante della nostra cultura, particolarmente se si connotano
come scelte peculiari di un territorio che hanno avuto lunga durata e si sono distinte per
tradizione [Maggi 2001]. Tutto ci ha a che fare con un sapere cui siamo sempre pi
propensi ad attribuire segno positivo perch capace ai nostri occhi di essere rivalutato
nonostante il tempo; anzi, forse proprio il trascorrere del tempo ci ha indotto a una
prospettiva di confronto in cui le pratiche pi antiche, i modi caduti in disuso vengono
accostati con quanto di pi attuale e innovativo abbiamo acquisito. allora che
constatiamo forzature, errori, esasperazioni della contemporaneit e siamo portati a
rivalutare equilibrio, esperienza e attenuazione collocandoli talvolta a torto solo nel
passato.
Un ruolo significativo nel diffondersi e nellaffermarsi del modello e della prospettiva
occupato ad esempio dalle tradizioni gastronomiche o enologiche.
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A chi non capitato almeno una volta di scegliere un luogo per consumare un pasto
attratto da uninsegna che dichiarava cucina locale, o quanti sono riusciti a sottrarsi
allaccattivante richiamo di un menu tipico del luogo in cui si trovavano a passare, o,
ancora, chi non si lasciato sfuggire almeno una volta nella vita il giudizio che la dice
lunga sullinculturazione alimentare di ciascuno di noi dalle mie parti lo fanno meglio?
davvero difficile recidere il legame tra territorio e cultura alimentare! Tutte queste
situazioni e mille altre, sono ottime esemplificazioni di quanto i fatti alimentari abbiano a
che fare con un determinato ambiente: vuoi perch siamo consapevoli che ad ogni
microcosmo territoriale e produttivo pu corrispondere un microcosmo culinario, vuoi
perch giustamente, pensiamo che il cibo possa avvicinarci meglio, o pi di altre
esperienze, a realt che non conosciamo, vuoi perch, ed una posizione che assumiamo
altrettanto di frequente, ci piace cimentarci con il gusto che, in ultima analisi, altro non
se non il nostro senso di appartenenza alimentare [Teti 1999].
In un tempo in cui le contaminazioni, le ibridazioni, le multiculturalit alimentari, e non
solo, sono di gran moda, ma in cui sono altres allopera raffinate tecniche di persuasione
per imporre i prodotti delle grandi industrie alimentari in un regime di abbondanza e di
spreco, i richiami alla produzione biologica, alla genuinit tradizionale, ai marchi di qualit
si moltiplicano e, non a caso, tutti in relazione alla territorialit.
Le zone tipiche, i prodotti tipici, le lavorazioni, le conservazioni, gli invecchiamenti, tutto,
insomma, rinvia a luoghi produttivi, spazi abitativi, cucine e culture alimentari peculiari di
certe aree geografiche. Il fenomeno, certamente non in questi termini, n con identica
funzione da sempre esistito; se oggi serve a difendere produzioni e a permetterne la
commercializzazione in mercati pi ampi ed , quindi, un portato del declinarsi dei
processi di globalizzazione postindustriale da un lato, e di quelli di reidentificazione locale,
dallaltro, un tempo era di segno differente [Guigoni 2004].
Nel secolo scorso e anche in quello precedente il discrimine dei consumi rendeva ad
esempio possibile denominare la popolazione di un paese con il suo cibo abituale e non
sempre tale denominazione era priva di una vena critica o talora ingiuriosa. Ci che ci
interessa rilevare che una simile concezione degli altri e di s conferma che anche per il
passato esisteva la consapevolezza di una stretta identificazione tra territorio, disponibilit
e comportamenti alimentari.
Lidentificazione con un cibo, un piatto, una pianta aromatica, una maniera di cucinare,
una tecnica di conservazione, un modo di consumare gli alimenti si afferma nel corso di
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un lungo periodo segnato da penurie e esperimenti alimentari, da abbondanza e
privazioni, da necessit e scelte.
Il lungo periodo costituisce un contesto di riferimento irrinunciabile per la comprensione
del passato, mentre lidea di durevole che se ne deriva, applicata ad esempio allo
sviluppo delleconomia, parte dal presente e si applica al futuro. La nozione di lungo
periodo appare dunque strettamente connessa a quella di sviluppo durevole, in una sorta
di continuum, saldato dal presente.
a questa concezione forse che varrebbe la pena ispirarsi per provare a parlare di marchi
da un punto di vista socio-antropologico, specialmente se larea cui si interessati larco
alpino.
Chiunque abbia a che fare con questo territorio studiandolo nellambito delle scienze
umane non tarder a rendersi conto che per molto tempo la nostra catena alpina stata
vista come il luogo delle regolarit e delle costanti deterministicamente imposte
dallambiente. E stato lapproccio ecosistemico a spostare lattenzione sullanalisi delle
relazioni tra popolazioni e risorse, e a porsi come obiettivo strategico la lettura della
capacit e delle modalit attraverso cui un gruppo umano adatta la propria consistenza
numerica in modo da mantenere la stabilit delle risorse. Le Alpi proprio in questottica
hanno presentato agli sguardi dei ricercatori soluzioni diverse, strutture sociali
diversificate, regole patrimoniali opposte, fenomeni totalmente divergenti tutti per
ispirati da uno stesso principio che oggi chiameremmo sostenibilit. Lambiente montano
non poteva sovraccaricarsi di uomini n di animali, non poteva essere sfruttato ma
mantenuto.
Da quanto lontano venga questo principio difficile dire certo che a guardare i primi
statuti o le prime carte di regola comunitarie del Trentino parrebbe di poterlo far risalire
assai indietro nel tempo. Anche in altre regioni dello stesso arco, per, usi civici, terreni
comuni, alpeggi, parti di prati o di boschi da gestire collettivamente o al contrario divisioni
territoriali e patrimoniali che salivano da mezza montagna fino in quota hanno giocato la
partita (fatte salve le onnipresenti eccezioni) del mantenimento del suolo, delle acque e
dei boschi [Nequirito 2002].
Daltro canto lagricoltura di montagna, faticosa e avara, deve aver ben presto insegnato
a tutte le popolazioni che vivevano sui pendii che il sostentamento andava ricercato in un
sistema misto, lagro-silvo-pastorale, e in tanti altri piccoli mestieri cui ci si poteva
dedicare durante i rigidi inverni [Coppola 1991]. Dopo secoli di angustie e di ristrettezze
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aggravate dalle guerre e dalle trincee i montanari -in verit pi le montagne che gli
abitatori- hanno incontrato il forestiero; prima scienziato curioso e alpinista, poi malato e
bisognoso di sole e aria pura, infine, amante della natura e della tranquillit. Tutti costoro
hanno trovato nelle Alpi il territorio ideale di studio, sport, terapia e relax, ma non ancora
un luogo ricco di un proprio patrimonio culturale.
Se nellOttocento si fonda cos il mito della salubrit del vivere in quota, passeggiando,
godendo di paesaggi che elevano lo spirito e bevendo le acque minerali pi pure e
efficaci, bisogna attendere il Novecento e lestremo limite dello spopolamento di zone
tagliate fuori dal turismo di massa, e lo spartiacque della scomparsa di qualsiasi traccia di
vita tradizionale perch si recuperino i saperi delle comunit abbarbicate ai monti.
Grandi conoscitori dellambiente naturale fatto di rocce, erbe, alberi e fiori; produttori di
alimenti preziosi quali il latte e il miele; allevatori e depositari dei segreti della
caseificazione, capaci di cavar patate, raccogliere mais, mietere orzo e segale e
immagazzinare fieno profumatissimo su chine vertiginose, gli ultimi montanari, in un
guizzo di orgoglio, proclameranno non le loro virt ma i pregi dimenticati delle terre che
abitano, quelli in gran parte offuscati dalle piste da sci.
Nella riscoperta del proprio passato, del modo di fare e di vivere che non pu essere
considerato vuoto a perdere viene ripristinata una quotidianit che non quella di ieri
ma le somiglia; con essa vengono difese e riprese alcune produzioni tradizionali.
Lalimentazione delle Alpi si impone allattenzione generale per le stesse ragioni che
avevano colpito limmaginario collettivo nel secolo precedente -ma ormai sappiamo che
la lunga durata fonda nel presente il durevole-. Quass tutto pi puro, c molto di
incontaminato, abbiamo saputo conservare il nostro ambiente e possiamo conservarlo
ancora con equilibrio e saggezza. La verticalit insegna la misura!
Con la consapevolezza che nel recente passato le popolazioni montane hanno creato
allinterno dei propri insediamenti dei veri ecosistemi in grado di garantire il
sostentamento alimentare dei membri, lallevamento di bestiami, la cura del paesaggio,
del suolo, del manto boschivo e di quello prativo, dei corsi dacqua e delle aree coltivate,
la societ contemporanea ha intrapreso un delicato e talvolta difficoltoso processo di
recupero di queste pratiche, che oggi usando il linguaggio della scienza
dellamministrazione o dellorganizzazione chiameremmo good practices. Lambiente
montano, per sua natura vincolante, ha indotto gli abitanti a plasmare, correggere o
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addirittura inventare le proprie dinamiche e consuetudini demografiche [Baldi e Cagiano
de Azevedo 1999] e sociali (natalit, matrimonio, emigrazioni), abitative e alimentari,
calibrandole strategicamente al contesto territoriale. anche per questo motivo che
quando si parla di sviluppo sostenibile [Magnaghi 1990; 1998] impossibile non fare
riferimento a tali processi che nel corso di secoli hanno conservato lambiente alpino con
rigore e passione, in costante equilibrio tra la tutela della natura e il corretto utilizzo a fini
alimentari, ma anche tra privazioni e sistemi di sussistenza [DellAgnese 1995].
Le Alpi non vanno considerate come un tessuto culturale e sociale omogeneo, ma come
un insieme di aspetti culturali distinti e peculiari [Camanni 2002], tuttavia uniti nella
diversit e nel continuo misurarsi con quote e clima, con la presenza di risorse idriche e
qualit del suolo, con lesposizione al sole e la pendenza dei terreni, con lestensione del
fondovalle e gli ostacoli naturali, in Piemonte come in Trentino, in Slovenia come in
Lombardia. Il tratto comune che interessa la totalit delle vallate dellarco alpino e le
rispettive comunit , quindi, lo stretto e inscindibile rapporto che le lega allambiente
inteso come natura e risorse.
Come si detto, se la riscoperta del passato deve essere sempre tenuta in evidenza,
altrettanto deve esserlo limpossibilit di ripristinare tali pratiche nella quotidianit come
avveniva ieri. Riproporle in modo pedissequo pressoch impossibile e non terrebbe in
considerazione n ibridazioni e rielaborazioni concettuali frutto dellincontro con altre
culture che continuano a realizzarsi, seppure con altra intensit e direzione, n le
molteplici esigenze delloggi. tuttavia indiscutibile il valore che ricoprono e che gli
antropologi hanno stigmatizzato come saperi diffusi: un insieme di esperienze, di
pratiche, di competenze empiriche e non, prive di una vera e propria base scientifica, ma
basate nellempiria, che vanno a costituire lapparato conoscitivo di una comunit
insediata in un determinato territorio e che, forse, non sono pi cos diffuse, data la
difficolt di reperirle e la crescente rarit con cui si presentano ai nostri occhi e alle nostre
orecchie.
opportuno, inoltre, abbandonare lidea di staticit e di arretratezza con cui da decenni la
montagna italiana viene descritta, poich stato dimostrato in pi occasioni come i suoi
tratti distintivi siano la mobilit [Albera e Corti 2000] (intesa sia come emigrazione
stagionale o di lungo termine, sia come il cosiddetto nomadismo, ovvero la pratica di
sfruttare le diverse quote e le diverse stagioni a favore dellallevamento di bestiame, della
coltivazione e dellapicoltura), le continue mediazioni culturali (frutto di incontri tra
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popolazioni ma anche dellaccresciuta attrazione che alcune localit montane esercitano
sui turisti) e i tassi di scolarit sopra la media.
La sfida che le Alpi hanno davanti a s riguarda, quindi, la possibilit reale di intrecciare
in modo armonico e, appunto, sostenibile [Magnaghi 1998] il sapere dei propri abitanti (di
coloro che sul territorio hanno vissuto e dal territorio hanno tratto insegnamenti,
esperienze e saggezze) e lalta qualit dellambiente paesaggistico e naturale (e delle sue
produzioni zootecniche e agricole) con la reintroduzione dellagricoltura di tipo biologico e
le aumentate possibilit di commercializzazione e di diffusione dei prodotti tipici che il
mercato globale garantisce.
A titolo esemplificativo ci sembrato opportuno prendere in considerazione quattro
prodotti territoriali inscindibilmente legati alle Alpi il cui recupero e la cui reintroduzione
nelle economie locali segnerebbero un percorso virtuoso e un nuovo, sostenibile
atteggiamento nei confronti dellambiente.
La Vacca Rendena
La Rendena una razza bovina particolarmente adatta allalpeggio in quota, prova ne
che ancora oggi la quasi totalit delle vacche di questa razza allevate in Trentino (e pi
del 50% di quelle allevate in Veneto) passano i quattro mesi estivi sulle malghe della Val
Rendena, Trentino occidentale (sullAltopiano di Asiago nel caso del Veneto). Questa
situazione giustificata dallelevato adattamento della razza al pascolo in zone di difficile
accesso e dalla pendenza notevole, in cui bovine di razze a maggiori dimensioni
presenterebbero difficolt. Le popolazioni locali allevano la Rendena gi dal 1700, ma nel
corso del XX secolo la razza sub una forte contrazione del numero di capi, per
motivazioni di ordine politico e sanitario. Attualmente, anche grazie allazione
dellAssociazione Nazionale Allevatori Bovini di Razza Rendena, i capi sono aumentati e
rappresentano un elemento fondamentale sia del paesaggio che delleconomia locale. La
Rendena ha, infatti, una duplice attitudine, carne e latte, con propensioni maggiori verso
questa seconda produzione. Gli sforzi dellAssociazione e di quanti hanno a cuore questa
razza sono volti a promuoverne lallevamento e la lavorazione del latte, anche attraverso
incentivi. Fedeli alle antiche pratiche, gli stabilimenti caseari che lavorano il latte seguono
precisi disciplinari che permettono una produzione di qualit, nel rispetto dei principi di
sostenibilit. Caratteristiche dellalimentazione della Vacca Rendena sono, infatti, lutilizzo
del fieno della valle e il pascolamento sui prati di fondovalle e su quelli di mezza e alta
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montagna. Sono espressamente vietati gli insilati e quegli alimenti che possono alterare il
sapore del latte e, di conseguenza, del formaggio. La reintroduzione di questo bovino e il
recupero di saperi e pratiche relativi alle sue produzioni sono ottimi esempi di come sia
possibile coniugare tradizione e attivit economico-produttiva, tutelando il paesaggio
naturale (il pascolo curato impedisce lavanzamento del bosco a quote elevate,
lesclusione dei mangimi permette il mantenimento della cotica erbosa), la qualit finale
dei prodotti (assenza di mangimi chimici) e la salute del consumatore.
La Pecora Sambucana
La pecora di razza Sambucana allevata quasi esclusivamente in provincia di Cuneo ed in
particolare nei comuni della Valle Stura di Demonte, da una quota di 600 fino a 1800
metri. Attualmente la razza presente nella valle con una consistenza numerica di circa
4500 capi distribuiti in una sessantina di allevamenti. La sua presenza ha origini molto
antiche e, secondo le ricerche condotte da alcuni studiosi, peraltro avvalorate dalle
testimonianze di allevatori locali, sarebbe sempre vissuta in questa zona favorita da un
habitat ricco di numerosi ed ampi pascoli. Tale tesi trova conferma nellesistenza di una
pecora che lambiente ha reso agile e nello stesso tempo robusta, adatta a vivere in un
ambiente dove il clima muta rapidamente e dove da sempre lallevamento ovino ha
rappresentato la possibilit di sfruttamento dei pascoli di alta quota. Si tratta di un
animale particolarmente rustico ed adatto allambiente in cui vive: trascorre infatti il
periodo di alpeggio estivo su pascoli rocciosi, disagiati, pietrosi e ripidi, con temperature
rigide nei mesi primaverili ed autunnali e durante la notte. Trascorre, invece, il lungo
periodo invernale nella stalla, nutrendosi con solo fieno prodotto in loco. La sua grande
agilit le permette di percorrere ripidi canaloni, scoscesi pendii, attraversare pareti
rocciose seguendo intelligentemente i sentieri scavati nella roccia per raggiungere le vette
e brucare gli ultimi ciuffi derba. La Pecora Sambucana unottima produttrice di carne,
latte e lana.
Come nel caso della Vacca Rendena, la sua reintroduzione promossa soprattutto
dallEcomuseo della Pastorizia nel comune di Pietraporzio (CN) ha un altissimo valore
simbolico poich riunisce in s aspetti ambientali (lutile sfruttamento dei prati in alta
quota), economici (produzione di manufatti con la lana, prodotti caseari e carne pregiata)
e sociali (recupero delle tradizionali pratiche di allevamento basate sul cosiddetto
nomadismo e garanzia per il consumatore di alimenti sani e controllati).
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Il Grano Saraceno
Il Grano Saraceno una pianta erbacea annuale che pu raggiungere laltezza di un
metro. Produce un solo stelo cavo, succulento e molto fragile che presenta numerose
ramificazioni. Dalla sua granella si ricava, dopo la macinazione, una farina bigia dalle
elevate qualit nutrizionali e salutistiche, utilizzata nella preparazione di piatti tipici come i
pizzoccheri, la polenta nera, dolci e biscotti. Caratteristica peculiare del Grano Saraceno
quella di presentare un ciclo vitale estremamente breve (da 60 a 90 giorni) che ne
consente la coltivazione anche in altitudine come seconda coltura dopo altri cereali. In
virt della velocit di germinazione e di sviluppo iniziale la coltura non richiede
normalmente interventi diserbanti n lutilizzo di antiparassitari. molto adatto a climi
freddi, a terreni a forti pendenze, magri e di scarso spessore. Questo grano per
fecondarsi ha bisogno dellazione dellape: la dipendenza dallazione di impollinazione
cos forte che dove la coltivazione era centrale nelleconomia del territorio era anche
molto diffusa lapicoltura. Il miele era uno dei pi rari in Italia e presentava un colore
scuro e un aroma forte. Anche per il Grano Saraceno utile parlare di nomadismo, poich
fiorendo in agosto, in un periodo in cui alle quote basse scarseggiano fioriture
interessanti, molti apicoltori effettuavano del nomadismo estivo su questa coltura
trasportando in alta quota le arnie.
Il Grano Saraceno originario della Cina (Himalaya orientale), dove utilizzato per
produrre pane e fu introdotto dapprima nellEuropa dellEst, mentre in Italia raggiunse
una diffusione notevole sulle Alpi nel 600 e nel 700. Questo cereale ha contribuito in
maniera fondamentale a garantire il soddisfacimento del fabbisogno alimentare,
soprattutto durante le carestie. Dalla seconda met del XX secolo, per, questa coltura
andata incontro ad un forte periodo di crisi: la produzione ha subito una brusca
interruzione. Le cause principali dellabbandono sono essenzialmente legate a
considerazioni economiche, ma anche a dinamiche sociali: difatti era prevalentemente
localizzata negli appezzamenti meno fertili, i primi ad essere abbandonati, e richiedeva un
notevole impegno di mano dopera per le operazioni di raccolta sui pendii o sui
terrazzamenti. Anche il cambiamento delle abitudini alimentari ha contribuito al suo
abbandono, insieme allavvento del turismo che ha sostituito il settore primario nelle
economie di montagna.
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Attualmente, in assenza di produzione nazionale di una certa rilevanza, i fabbisogni
interni sono soddisfatti attraverso limportazione dalla Cina. Tuttavia, il Grano Saraceno
in fase di reintroduzione in Piemonte, in Brianza, in Valtellina e sullAppennino centrale,
grazie a iniziative di istituti sperimentali, azioni Leader, presidi Slow Food e singoli
coltivatori. Date le sue caratteristiche, la pianta si inserirebbe a pieno titolo nel circuito di
commercializzazione dei prodotti biologici e promuoverebbe unagricoltura di montagna
ormai ridotta a produzioni marginali. Unultima non trascurabile ragione per diffondere la
coltivazione del Grano Saraceno nelle zone montane il valore estetico della coltura che
pu contribuire significativamente a migliorare la qualit del paesaggio. Se vero che
allagricoltore delle zone montane verr in futuro affidato sempre di pi il ruolo di custode
e tutore del territorio e delle tradizioni culturali del passato, oltre che di produttore di
alimenti non ottenibili nelle zone agricole tradizionali, certamente il Grano Saraceno potr
svolgere un ruolo non secondario in quanto coltura esteticamente gradevole, non
inquinante e capace di fornire prodotti con caratteristiche nutrizionali e organolettiche
uniche.
Il miele
Alcune qualit di miele, come quello di rododendro, si producono esclusivamente nellarco
alpino ad altitudini variabili, spesso anche molto elevate. La produzione di queste
tipologie di miele si effettua con una faticosa transumanza (ancora il nomadismo) degli
alveari, dal fondovalle alle quote pi alte. Lutilizzo di queste tecniche comporta dei costi
di produzione elevati che uniti allinstabilit delle condizioni meteorologiche in quota
concorrono ad ottenere produzioni quantitativamente minori rispetto allapicoltura di
mezza montagna o di pianura. Nelle Alpi la produzione di miele ha origini remote e nel
corso del tempo ha visto diversificare le proprie qualit (Castagno, Tiglio, Robinia,
Millefiori, Rododendro, Flora Alpina), andando a costituire unimportante integrazione di
reddito nellambito delleconomia debole dellarea montana.
I quattro esempi riportati sono emblematici delle enormi potenzialit che la
reintroduzione di antiche produzioni con metodologie appropriate ed ecologicamente
sostenibili pu comportare, rivitalizzando settori ormai abbandonati.
Ma in che modo si possono garantire queste e molte altre produzioni alpine? In che
modo si possono tutelare dagli inevitabili tentativi di imitazione, magari frutto di
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procedimenti non rispettosi nei confronti della materia prima stessa e della salute del
consumatore?
La risposta a questi interrogativi sembra essere stata individuata nei cosiddetti marchi di
qualit, le certificazioni che le istituzioni conferiscono a quei prodotti tipici, tradizionali,
locali, derivanti da un legame con il territorio di produzione della materia prima o anche
solo per la trasformazione o, ancora, per entrambe gli aspetti. Sono, quindi, chiamati
prodotti tipici quelli che si fregiano di un riconoscimento ufficiale (DOP e IGP) e prodotti
tradizionali quelli che pur essendo caratteristici di un determinato territorio non hanno
nessun riconoscimento [ISMEA 2006].
Un marchio come DOP o IGP permette di ricostruire in maniera documentata le varie fasi
del percorso di un prodotto (tracciabilit), con la finalit di garantire al consumatore
lidentit di chi materialmente produce, trasforma o manipola quanto trova sugli scaffali di
un negozio. La crescente esigenza di recuperare tali informazioni relative a ci che si
mangia sta contribuendo a ricucire lentamente il legame tra territorio e produzione, tra
paesaggio, clima, quota, storia e tradizioni, poich sempre il territorio attraverso i suoi
abitanti il vero custode delle lavorazioni tradizionali e artigianali, quelle stesse che
insieme alle materie prime impiegate si crede forniscano allalimento le tanto apprezzate
qualit organolettiche.
Oggi abbiamo un vastissimo elenco di prodotti tipici. Oltre a quel centinaio che risponde a
marchi DOP e IGP, ci sono oltre 3000 prodotti tradizionali individuati dalle regioni per
superare i vincoli imposti dalla legislazione sanitaria [ISMEA 2006]. Ma linserimento di un
prodotto nellelenco regionale non costitutivo di diritti e leventuale riferimento al nome
geografico non costituisce riconoscimento di origine o provenienza del prodotto dal
territorio al quale riconducibile. Probabilmente essi sono destinati a ricevere nel tempo
un assetto pi stabile, che potr essere il risultato o di un riconoscimento comunitario che
valorizzi il rapporto con il territorio (DOP o IGP) o di forme di tutela affidate ad istituzioni
locali.
Si pone con forza la necessit di garantire la relazione tra prodotto e territorio, tra valore
della tradizione e pratiche di lavorazione; tuttavia, ad una prima osservazione del
fenomeno, ci sembra opportuno segnalare una forse eccessiva presenza di marchi.
Oltre ai gi citati Prodotti Tradizionali Regionali, a quelli DOP (Denominazione dOrigine
Protetta) e a quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), ed escludendo dal
ragionamento i vini (che hanno una storia ed una tradizione a parte), si assiste ad una
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moltiplicazione e, quindi, ad una sovrapposizione di marchi a garanzia della qualit e
dellorigine territorialmente e culturalmente definita di un dato prodotto. Ecco allora i
prodotti STG (Specialit Tradizionale Garantita), i prodotti DE.CO. (Denominazione
Comunale dOrigine), quelli garantiti dai presidi Slow Food e quelli a marchio biologico.
Non nostra intenzione in questa sede esaminarne le differenze e le peculiarit, ma
difficile non notare come un numero e una variet cos alti possano generare confusione
sia nel consumatore, sia nel potenziale produttore che per la prima volta si affaccia in
questa giungla cos frammentata.
In questo scenario, la proposta di creare un nuovo, ulteriore marchio di qualit appare un
po paradossale, ma facilmente spiegabile. Un marchio unico per tutti i prodotti alpini
potrebbe, infatti, sostituire o affiancare il gi affermato DOP (che presenta requisiti pi
restrittivi rispetto alla IGP) e soppiantare i marchi regionali, locali o comunali. I prodotti e
le materie prime dellarco alpino possiedono caratteristiche che rendono possibile
accomunarli, pur consapevoli delle infinite diversit che sussistono. Potenzialmente il
Marchio Alpino avrebbe un grande impatto sul mercato e premierebbe quei prodotti o
quelle pratiche totalmente legate alla tipicit del territorio, alla sua morfologia, al suo
clima e alla sua salubrit. Le caratteristiche dei prodotti riscontrabili in tutte le vallate
delle Alpi sono riassumibili come segue:
produzioni basate su coltivazioni ed allevamenti tipici del territorio (per quanto
riguarda le materie prime) e su particolari processi di lavorazione/trasformazione
di tali materie in loco;
utilizzo esclusivo delle tecniche di coltivazione e allevamento biologiche;
nomadismo come pratica prevalente per lallevamento e la coltivazione;
consumo del territorio sostenibile e non irreversibile;
produzioni rispettose delle tradizioni locali e dellambiente naturale.
La presenza di questo marchio faciliterebbe anche la comunicabilit dei prodotti alpini e,
quindi, la loro diffusione. Lobiettivo, oltre alla garanzia di prodotti sani e non dannosi per
lambiente montano, quello di sfruttare positivamente limmaginario collettivo della
montagna, costituito da elementi come la salubrit e la genuinit. Il Marchio Alpino
sarebbe estensibile a tutti i territori montani in grado di garantire una completa
sostenibilit delle proprie produzioni e si fonderebbe sul costante e imprescindibile
apporto dei saperi diffusi.
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www.vallestura.net/sambucana/Default.asp
www.regione.piemonte.it/agri/ita/news/pubblic/quaderni/num12/art18-12.htm
www.tipicalia.com
www.apicoltura2000.it
www.cittadelmiele.it