La strana estate del signor Kneipp

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di Flavio Ambroglini, sentimentale

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Flavio Ambroglini

LA STRANA ESTATE DEL SIGNOR KNEIPP

Quando il destino prende il sopravvento

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LA STRANA ESTATE DEL SIGNOR KNEIPP Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Flavio Ambroglini ISBN: 978-88-6307-369-0

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

Ogni riferimento a persone, fatti e cose è puramente casuale.

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LA STRANA ESTATE DEL SIGNOR KNEIPP

Quando il destino prende il sopravvento

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CAPITOLO I Finalmente il 31 luglio! Anche quell’anno, in quella un po’ troppo calda e afosa ma comunque avvolgente estate del 1969, e d’altronde com’era per abitudine consolidata, Rudolph Kneipp, o meglio mr. Kneipp come lo chiamavano un po’ tutti i suoi cono-scenti, ne stava assaporando tutti gli umori e ormai il sottile piace-re delle vacanze cominciava ad insinuarsi maliziosamente nei suoi pensieri e stava a poco a poco impadronendosi di lui, creando quell’aspettativa che poi era il preambolo per potersene andare senza troppi ripensamenti. Non che la cosa lo stupisse più di tanto, ma quella sorta di “lim-bo” forse riusciva ancora a sorprenderlo, non tanto per la novità - perché tale non era - ma perché, pur essendo preparato, si ripeteva un evento, una sorta di “rito” che tutti gli anni creava un malcela-to stato d’ansia, non sgradevole a dire il vero, sino al momento della partenza e la vigilia era per così dire l’apoteosi di quella condizione! Il giorno seguente sarebbe ritornato ancora una volta in Italia e la meta, anche quell’anno, era la solita pensione a Cervia, la stessa in cui soltanto fino a due anni prima aveva trascorso praticamente tutte le ferie estive in compagnia di sua moglie Giséle. Un posto talmente “giusto” al punto di non aver mai pensato lon-tanamente di poterlo cambiare; una specie di seconda residenza dove ovviamente lo conoscevano tutti e si sentiva ormai di casa, quasi uno della famiglia, e quel giorno il pensiero di doverci tor-nare da solo costituiva un cruccio che lo rattristava non poco.

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Come rinunciare però ad un po’ di meritato riposo e alle vere e proprie delizie della cucina di mamma Rosa? Rosa Sarti era l’anima della pensione, in tutti i sensi, visto che sa-peva coprire tutti i ruoli, quando il personale mancasse un po’ d’occhio, e in più presenza storica, dato che lei stessa aveva aper-to l’attività subito dopo la fine della seconda guerra mondiale rimboccandosi le maniche da sola, per il fatto che era vedova: un’antesignana di quel fenomeno di massa che avrebbe portato, a partire dagli anni ’60, il litorale romagnolo ai primi posti del turi-smo nazionale e famoso in tutto il mondo prima ancora che un ce-lebre Amarcord descrivesse così bene la Romagna sul grande schermo! Cervia era già meta turistica già dagli inizi del ‘900 e negli anni ’30 cominciavano a notarsi case e ville di persone, alcune anche famose, che l’avevano scelta per trascorrervi i propri periodi di vacanza; purtroppo il secondo conflitto mondiale aveva messo tut-to in discussione e ripartire non era certo cosa facile. Soltanto la caparbietà dei romagnoli poteva in breve tempo far gi-rare il motore del turismo e mamma Rosa l’aveva ben capito e poi a grinta, era solita ripetersi, non era seconda a nessuno, in più lei si considerava una vera “mamma” che conosceva bene tutti i suoi clienti, le loro famiglie, i loro desideri e anche i loro guai, e che mandava loro ogni anno gli auguri per il Natale scrivendoli di pugno: poche semplici parole che riuscivano a far inumidire gli occhi ai più distratti. Per Rudolph, poi, nutriva un affetto speciale perché gli ricordava tanto il suo “burdel”, quel figlio che la guerra crudele le aveva portato via! Ricordava sovente il suo Sauro che, salito su di una tradotta mili-tare assieme a tanti altri giovani in una triste notte, in cui anche la luna aveva dato forfait, per recarsi a Brindisi, dal finestrino le a-veva detto sorridendo di non preoccuparsi perché il mare non era un nemico; per un vero marinaio, come lui si sentiva sin dentro l’anima, nato e vissuto tra i pescherecci, abituato ad andarci per mare con il sole e nelle gelide giornate d’inverno, in fondo in fon-

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do si trattava di un’esperienza nuova dalla quale altro non poteva ricavare se non insegnamenti preziosi per quando avrebbe ripreso a navigare in tempo di pace. Poi giusto il tempo per rubargli un bacio e fare le raccomandazio-ni che tutte le mamme fanno ai propri figli e per sfilarsi dal collo quel medaglione fatto in due metà, una delle quali era appartenuta al padre di Sauro, Nicolò Borghi. Su di esso vi era impressa la dicitura “insieme per sempre”. Lo scompose e mettendogliene al collo una parte, disse: «ti darò l’altra metà al tuo ritorno perché tu possa donarla a colei che sarà la tua sposa!» A mamma Rosa dal Ministero competente comunicarono, pochi mesi dopo, con una impersonale e stringatissima lettera, che il “cargo” dov’era imbarcato Sauro e che trasportava i rifornimenti, da Brindisi alla base italiana sull’isola di Rodi, non era mai arriva-to alla meta perché intercettato e affondato da un sottomarino in-glese salpato dall’isola di Malta. Un solo e azzeccato siluro aveva fermato decine di vite in un tre-mendo attimo senza che quei poveretti se ne fossero potuti accor-gere e l’unità britannica, emersa successivamente per raccogliere eventuali superstiti, non trovò altro che relitti: il mare non aveva restituito nessuno e nemmeno un corpo senza vita, inghiottendo tutto negli abissi. Il ricordo del figlio era però vivo nel suo cuore e provava un sus-sulto ogni qualvolta Rudolph tornava a Cervia, vista l’incredibile somiglianza tra i due. Mamma Rosa poi, ed era un aspetto sicuramente non trascurabile, conosceva benissimo i suoi gusti e sapeva tentarlo e coccolarlo a tavola, a rischio di viziarlo, come nessun ristoratore di Vienna e di nessun’altra parte del mondo fosse riuscito mai a fare. Già, perché lui il mondo l’aveva girato in lungo e in largo per la-voro e la sua specializzazione di geologo e gemmologo l’aveva sballottato in ogni angolo del pianeta per trovare giacimenti di ogni tipo di minerali e soprattutto di preziosi e la sua fama ne a-veva fatto ben presto il giro, come quella dei tortelloni al ragù di

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mamma Rosa, piatto che lui aveva decantato e minuziosamente descritto in centinaia di trattorie e ristoranti di ogni genere e sotto tutti i cieli, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, sperando che qual-che cuoco riuscisse a farglielo, ma che nessuno era mai riuscito nemmeno lontanamente ad imitare, con il risultato che aveva do-vuto sempre aspettare l’anno successivo per togliersi lo sfizio. Dal giorno dopo, comunque, per lui il vociare della gente al mer-cato del giovedì, gli sfottò dei pescatori, l’odore salmastro del ma-re portato dalla brezza della sera, i colori e i sapori della “sua” Cervia in terra di Romagna, che aveva conosciuto e imparato ad amare proprio nei giorni tristi e bui della guerra, sarebbero stati nuovamente realtà e quel sottile brivido d’emozione che provava ogni qualvolta i suoi ricordi tornavano là, avrebbe lasciato il posto alla certezza di rivivere quei giorni in cui da soldato stanco e lace-ro, provato nel corpo e nello spirito, mentre sbandato risaliva lo Stivale incalzato dalle truppe alleate, aveva trovato un po’ di ri-storo in quello che per lui poi sarebbe diventato per sempre il suo “angolo di Paradiso”. Come avrebbe mai potuto dimenticare quella donna minuta ed e-nergica, vestita di nero con il fazzoletto in testa con due bimbi piccoli accanto, che legandosi il grembiule l’aveva guardato negli occhi, senza stupore quando fece per la prima volta capolino sfini-to alla sua porta, appoggiandosi allo stipite per non cadere, e l’aveva fatto entrare, sfamato e senza chiedergli che divisa portas-se e quale lingua parlasse gli aveva dato panni puliti e borghesi per aiutarlo a salvarsi? Come avrebbe potuto cancellare quel silenzio rotto solo dal tin-tinnio delle posate e quella carezza sulla guancia quando gli disse: «Mangia e riposati finché ti sarai ripreso, ma poi, quando te ne andrai, stai attento che sicuramente anche tua madre ti starà aspet-tando», e quella lacrima che le rigò piano il volto ancor giovane ma segnato profondamente dal dolore per la perdita di un figlio? Aveva quindi mantenuto la promessa fatta un tempo a quella ma-dre, guardando l’infinito dove il cielo e il mare sono una cosa so-la, quell’impegno a tornare a Cervia ogni anno, per quanti ne a-

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vesse potuti vivere, per ringraziare la sorte e recitare una preghie-ra per un fratello mai conosciuto di cui un mare lontano custodiva le spoglie mortali; e gli era poi facile farlo, dato che nel momento del ritorno a casa scattava già il conto alla rovescia per l’anno successivo, tanto che la prenotazione alla pensione praticamente non l’aveva mai fatta nemmeno una volta. Non l’avrebbe mai confessato a nessuno ma era facile scoprirlo che una volta a Cervia prima o poi si sarebbe letteralmente abbuf-fato di piadina con lo squacquerone, come un ragazzino, passeg-giando tra gli ombrosi viali o lungo il porto canale guardando i “bragozzi” che lo risalivano pigramente mentre tornavano dalla pesca, affondando le sue fauci in quel tripudio di bontà mentre a stento il contenuto sarebbe rimasto tale gocciolando caldo sul mento e i pantaloni. Poteva finalmente pensare di andare a poltrire nell’immensa pine-ta, godendosi il sole che filtra attraverso le chiome dei pini marit-timi odorosi di resina, facendo finta di guardare - sonnecchiando - il galleggiante che con fare stanco era appeso alla canna da pe-sca e timidamente si rifletteva sull’acqua, che pigra risale dal ma-re nel canale delle saline, senza preoccuparsi se l’esca fosse anco-ra attaccata all’amo, oppure se qualche pesce più furbo di lui l’avesse mangiata in santa pace. In fondo anche questo era un buon modo per ammazzare il tempo finché i dodici rintocchi della torre civica, portati dal vento, non gli avessero annunciato pun-tualmente che l’ora del pranzo era giunta. Fare le valige quell’anno quasi certamente per Rudolph sarebbe stato meno pesante che nel passato, dato che la quiescenza appena raggiunta gli avrebbe consentito di rimanerci finché voleva a Cer-via, voglia permettendo, senza avere il problema di rientrare for-zatamente a casa allo scadere del fatidico ultimo giorno di ferie. Rudolph abitava a Modling, una ridente cittadina, pochi chilome-tri a sudovest dalla capitale austriaca, che l’aveva visto nascere nel 1910 e dove la famiglia Kneipp, originaria di Salisburgo, ri-siedeva ormai da diverse generazioni.

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Finalmente non doveva più tornare a peregrinare trafelato da un aeroporto all’altro, in una landa desolata o nel ventre della terra, in mezzo a mille e più pericoli, senza domeniche né altre feste comandate, costretto a levatacce con quaranta gradi all’ombra o venticinque sotto zero e sbattuto qua e là come un pacco postale, simile a quello che il postino - il suo caro amico d’infanzia Heinz Muller - gli aveva appena recapitato. «Scusa!» si premurò di dirgli Heinz, da buon dipendente delle Po-ste austriache, per il fatto che il piccolo involucro di cartone fosse tutto ammaccato, sporco e lacero, tenuto assieme a malapena da uno spago, ma così era arrivato all’ufficio postale poco distante dalla casa di Rudolph, scaricato da un aereo che proveniva da un posto che Rudolph non riusciva a decifrare e del quale - in fondo - non gli importava niente, nemmeno sapere dove fosse, e perciò lo rassicurò dicendogli di non preoccuparsi, tanto ormai i suoi pen-sieri in quel momento erano già in riviera e di quel pacchetto stra-no, bislacco, lacero, unto e intriso di mille odori e del relativo contenuto, ad un neo-pensionato come lui in quel momento pro-prio non gliene importava un bel niente; tanto valeva non sporcar-si nemmeno le mani e riporlo su di uno scaffale dello sgabuzzino e arrivederci al ritorno! Vestiti di lino per la sera, come conveniva a un signore veramente raffinato, scarpe adeguate in tessuto e scamosciato o di vernice per le occasioni particolari e camice di seta, foulard nei colori co-ordinati agli abiti e gli immancabili papillon, anch’essi di pura se-ta, visto che le cravatte proprio non le digeriva, tutto riposto con grande cura nella valigia grande che odorava delicatamente di la-vanda, proprio quella che tanto Giséle amava conservare in sac-chettini di tela bianca e che trovavi infilati in ogni cassetto, men-tre nell’altra - quella più piccola - pantaloncini corti e camicie di cotone, dal vago sapore coloniale ovviamente, poiché anche per la spiaggia ci voleva un tocco di classe, un distinguo… non certa-mente quelle odiose ciabatte “infradito” in gomma molto alla mo-da ma terribilmente americane il cui uso stava dilagando, contor-nate da canottiere stile “cantiere” che si vedevano comunemente

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fare pendant con orribili pantaloncini floreali in spugna di cotone, stile “mari del sud”, talmente succinti da farne immaginare a chi-unque il contenuto. C’era anche da valutare, secondo una sua consolidata convinzio-ne, che le innumerevoli signore “accampate” perennemente sulle panchine dislocate nel percorso tra la pensione e la spiaggia o se-dute ai tavolini dei bar, così attente a cercare la vittima del giorno per i loro pettegolezzi fingendo di leggere interminabili giornali, certamente se ne sarebbero accorte subito se uno, un bel cinquan-tenne come lui, avesse classe oppure no: ci mancava solo “sba-gliare” il vestiario… una gaffe imperdonabile, ripeteva tra sé e sé, anche se la voglia e il suo “share” lo vedevano tremendamente al ribasso con il gentil sesso in quel momento, al punto di dubitare se poi avesse avuto la voglia di presentarsi alla spiaggia, o se fos-se stato meglio rimanere per un po’ mescolato al colorito movi-mento del centro oppure starsene tranquillo nella vicina pineta. La sua Giséle, anche da lassù, in ogni caso, non gli avrebbe mai perdonato di vederlo in disordine, neppure in vacanza, e dopo tan-ti anni trascorsi così intensamente assieme a lei, non se la sentiva di farle un torto proprio ora. Quella sarebbe stata la prima vacanza senza di lei da quando, nel 1946, l’incontrò - una splendida e fresca domenica di primavera - mentre, senza una meta precisa, passeggiava a zonzo per la capita-le, guidato forse più dalla curiosità che dall’istinto. Vienna mostrava ancora nettamente i segni e le profonde ferite del recente conflitto al punto di catturare lo sguardo del più distratto passante, ma quando vide Giséle seduta su di una panchina lungo il Danubio, ne rimase conquistato al punto di girarsi per guardarla e accorgersi che intorno a lui tutto era scomparso all’improvviso. Fatti alcuni passi tornò a girarsi incrociando un timido sguardo con quello di lei e fu il classico colpo di fulmine, al punto che, prima delle feste di Natale, erano già marito e moglie: lei che l’anno precedente - proprio sul più bello - un destino crudele e in-comprensibile volle portargliela via, nel volgere di pochi mesi, in silenzio come le foglie d’autunno che il vento decide ad un certo

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punto di strappare dalle piante senza che queste se ne possano fare una ragione, e lui una ragione invece dovette per forza farsela per non morire di dolore anche se lo strazio che aveva dentro, lo ave-va fatto gridare e guaire come un animale ferito e ne aveva incri-nato un po’ le certezze e la fede, e le sue braccia rivolte al cielo ricordavano quei rami così nudi, così irreali rivolti verso l’azzurro lontano a chiedersi perché. Ma le piante sanno aspettare il disgelo e la primavera che deve tornare per ritrovare forza e vigore, nuove certezze, nuova gioia di vivere e il segreto lo serbano dentro di loro, nei loro nudi tronchi, nei secchi e spogli rami che a primavera si ricopriranno di nuove foglie e la vita tornerà a scorrere in quei legni, gli disse Don Peter, il vecchio sacerdote che li aveva uniti in matrimonio, e anche per lui aveva avuto parole di speranza prospettato una nuova stagione di vita. Era necessario però ritrovare fiducia dentro e fuori di sé, riconci-liarsi con Dio e saper aspettare con trepidazione l’arrivo di quella nuova alba, di quella primavera… di una nuova speranza per non morire. Per fortuna la loro nipotina Andrea aveva proprio gli occhi di nonna Giséle, e Rudolph lo ringraziava sempre il buon Dio per averla mandata e gli bastava guardarla ogni tanto per rivedere in quelle pupille turchesi lo sguardo di colei che tanto aveva amato, e proprio Andrea l’aveva convinto a fare quel viaggio, puntando-gli il suo paffuto indice e dicendogli che se l’era guadagnato, ora che era in pensione, e che la nonna in fondo avrebbe voluto così. Era meglio perciò mettere al bando la malinconia, e quasi quasi immaginava il suo arrivo alla Pensione Alice con mamma Rosa che l’avrebbe abbracciato commossa sull’uscio, l’affettuoso e di-screto saluto dei figli di lei, Oreste e Annita Borghi, fratelli più giovani del compianto Sauro e gestori dell’albergo, che l’avrebbero abbracciato anch’essi come un fratello e gli amici ri-trovati che con garbo avrebbero glissato su argomenti riguardanti Giséle… gli sguardi sottecchi delle solite attempate e pettegole signore intente a sferruzzare all’uncinetto su qualcosa che - somi-

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gliando alla tela tessuta da Penelope mentre attendeva Ulisse - sembrava non finire mai, quasi un rito scaramantico per criticare e fare illazioni sottovoce sui nuovi arrivati, e lui che anche in tempi normali non amava quel cicaleccio, seppur sottovoce e fatto da attempate signore, quella volta men che meno l’avrebbe gradito. «A letto presto», ordinò a se stesso, «perché domani di buon’ora l’Adria Express non ti aspetterà», ripeté mugugnando Rudolph, facendo memoria se a tutti avesse confermato la partenza per evi-tare di trovarsi una pila di quotidiani abbandonati in giardino o sacchetti di pane ammuffito nel contenitore sullo steccato accanto al cancello della graziosa casetta in Badstrasse, al suo ritorno a Modling. Tranquillo, Rudolph!; Mario Casadei - il barista italiano della piz-zeria Peccino, poco distante da casa sua - come sempre avrebbe fatto il suo buon lavoro di segretario avvisando tutti dell’avvenuta partenza in cambio di un saluto alla sua Italia e di qualche piadi-na, quelle buone ovviamente; quelle che lui - cesenate d’origine - sognava quasi tutte le notti, belle calde e fragranti, accompagnate da un fresco pinzimonio di verdure con accanto un fiasco di cor-poso vino di Romagna da scolare in fretta per la bugiarda paura che inacidisca! Pensieri, ricordi, immagini di tante giornate felici trascorse al ma-re, gli scherzi e le risate tra gli spruzzi e la spuma delle onde, le uscite a pesca allo strascico con i “bragozzi” e le “paranze” che con le loro variopinte vele coloravano l’orizzonte, le grida e gli ordini ai marinai, lo sfrigolio del pescato sulle braci, i sapidi pro-fumi della cucina tradizionale che a Cervia, dai tempi dell’antica Ficocle, odora di terra e di mare ed i canti nelle tante serate passa-te all’Orto, la vecchia osteria frequentata dai pescatori al porto, e le interminabili discussioni davanti a un bel bicchiere di fresco Sangiovese o di Trebbiano: tutto si accavallava e cozzava contro le altre così grigie e così normali immagini della sua vita di tutti i giorni e mentre si infilava sotto le lenzuola di quel letto, diventato ormai maledettamente grande e vuoto, non sapeva perdonarsi di aver vissuto troppo spesso lontano da sua moglie, dalla sua casa, e

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il silenzio quasi irreale della stanza lo riportò invece alla realtà di uomo solo, arrivato sì ad un traguardo importante della vita, ma senza la sua compagna, e una vena di sottile rimorso si insinuava nei suoi pensieri. Un nodo gli attanagliò la gola sin quasi a farlo scoppiare in lacri-me finché gli riapparve Andrea che puntandogli ancora il suo diti-no gli ordinò sorridente di partire e ad un ordine così non si pote-va certamente disobbedire! «Buona notte, nonno Rudolph, buon viaggio», e poi finalmente Morfeo ebbe il sopravvento e gli donò il sonno che portò l’oblio; sogni, speranze, immagini, illusioni: uno strano legame tra il reale e l’irreale perché sottile è il limite tra il sogno e la realtà, così com’è labile il confine tra le solide certezze di uomo vissuto e le incertezze di un adolescente che si affaccia alla vita e che riaffio-rano come fantasmi ogni volta che la vita non è poi così scontata come sembra. Un trillo maleducatamente forte svegliò Rudolph di soprassalto senza che si potesse rendere conto di aver dormito una notte intera o una manciata di ore: la sveglia implacabile così difficile da fer-mare, con gli occhi brucianti che non si vogliono aprire, l’aveva riportato alla realtà della nuova alba che timidamente annunciava il giorno, un altro giorno che stava per nascere e che per lui vole-va significare una pagina nuova nella vita, non per rinnegare il suo passato, ci mancherebbe altro, lui era pronto a ripercorrerlo, passo dopo passo, senza rimorsi né rimpianti, ma perché il suo di-sperato desiderio di vivere gli ordinava di rimontare in sella, di vivere una vita - per il tempo che gli sarebbe restato - degna di es-sere vissuta appieno, assaporando anche le piccole cose di ogni giorno come il cinguettio dei passeri sul davanzale, quell’aria frizzante che entrava, odorosa di tiglio e ginepro, dalla finestra socchiusa assieme ai primi tremolanti raggi di sole filtrati dai bianchi tendaggi, la certezza che il suo cuore - seppur tanto prova-to - era ancora capace di sussultare per un’emozione.

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Guardò infine la sveglia e improvvisamente si ricordò che il treno sicuramente non sarebbe stato più lì sul binario ad aspettarlo, se non si fosse spicciato a prepararsi. Le valige le aveva già sistemate accanto all’uscio, la sera prima, e non c’era nemmeno da preoccuparsi di chiudere casa, tanto Mar-lene, la sua unica figlia, sarebbe passata poi a riordinare le stanze e a fare le pulizie una volta tornata a Modling, dopo la sua par-tenza, e poi - pensò per l’ennesima volta - quella casa tanto gran-de avrebbe potuto ospitarli benissimo tutti, ammesso che suo ge-nero, il “caro dottor Karl”, come desiderava farsi chiamare, si fos-se degnato di mollare quell’anonimo, odioso, insignificante e mo-derno appartamento al terzo piano di un bruttissimo stabile sulla Franz Joseph Strasse, così immerso nel traffico del centro da co-stringerli a tener quasi sempre le finestre chiuse, offrendo final-mente la possibilità ad Andrea di correre su di un vero prato, quel-lo che gira tutt’intorno casa, tra gli splendidi fiori che Gieséle chiamava un tempo per nome e che lui fingeva di conoscere per non fare brutta figura, ma certamente lei sorridendo l’aveva capito e stava ogni volta al gioco. Non l’aveva mai umiliato e questa dote l’aveva conquistato più di ogni altra sua peculiarità, forse ancor di più del suo bel viso, dei suoi fluenti capelli castani dai vaghi riflessi color mogano, del suo incedere gentile, del suo sguardo che riusciva a fargli lasciare, dimenticandolo, ogni problema al di là dell’oceano e perciò aveva sempre ringraziato il buon Dio per la fortuna che gli aveva riser-vato anche se, proprio per l’amore che li univa, il distacco era sta-to atroce, un dolore di quelli che ti annientano, capace di distrug-gere anche la roccia più dura e che solo una fede provata era riu-scita pian piano a fargli superare sapendo che prima o dopo si sa-rebbero ritrovati per sempre! Il rumore maleducato del clacson dell’auto di Marlene gli fece comprendere che era proprio arrivato il momento di andarsene: una sbirciata al volo alla sua casetta prima di caricare le valige sulla Mercedes della figlia per poi salirvi, e via di corsa nel traffi-co ancora incerto di quelle prime ore d’inizio agosto; d’altronde in

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quel periodo molti se n’erano già andati in ferie ed erano più le automobili dei turisti quelle che cominciavano ad animare le stra-de, piuttosto che quelle dei viennesi rimasti in città! Scorse il Prater con la sua grande ruota che faceva capolino tra gli alberi… Ancora pochi minuti e la stazione sarebbe stata a por-tata di mano, o meglio di gambe, e in quei momenti ebbe modo di apprezzare quanto fosse tornata bella la capitale, dopo i lavori di restauro del dopoguerra, finché Marlene lo esortò a scendere per-ché con l’auto non avrebbe potuto entrare sin dentro alla stazione. Un veloce passaggio alla biglietteria per convalidare il biglietto e poi di corsa al binario 14, ed ecco finalmente l’Adria Express tira-to a lucido e già pronto con la sua splendida e grande locomotiva di color nero, le ruote a raggi dipinte di rosso: sembrava uno scal-pitante purosangue in attesa di far vedere cos’era capace di fare, tra sbuffi di fumo grigio e di bianco vapore e i due macchinisti che non smettevano un attimo di controllarla, con una passione simile a quella che unisce il domatore alle sue fiere, pronti a lan-ciarla in un’emozionante cavalcata attraverso le Alpi e fino al ma-re. Un fischio acuto, alle sei precise, si levò improvvisamente sopra i saluti e il confuso vociare della gente assiepata sulla banchina; un bacio sulla fronte a Marlene, le solite raccomandazioni di un pa-dre che non si rassegnava di vederla donna matura e la promessa di sentirsi presto al telefono soprattutto per salutare la sua adorata Andrea. Una nuvola di bianco vapore uscì dalla locomotiva e quasi nasco-se le braccia che si agitavano fuori dai finestrini e nemmeno il classico scossone del treno che testimoniava la partenza ruppe quel quadro di umanità colorata: l’Adria Express finalmente stava lentamente uscendo, sbuffando e stridendo, dalla stazione e tutti si decisero a prendere posto in quei comodi vagoni che li avrebbero portati in Italia. La locomotiva cominciò ad eruttare grandi volute di fumo che av-volsero ogni cosa, il ritmo dei pistoni e delle bielle sempre più

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serrato e il convoglio con un guizzo felino prese in breve velocità dirigendosi verso sud. A Rudolph, appoggiato al finestrino, il paesaggio sembrò improv-visamente un grande schermo che gli correva incontro per poi su-bito sfuggirgli dietro, quasi un magico gioco di bimbo che amava osservare quelle cose che, per mano di uno sconosciuto mago, dapprima ferme, improvvisamente prendevano vita; un’emozione che solo il treno sapeva regalargli ogni volta che vi saliva, man mano che la velocità aumentava. Pochi minuti e Vienna scomparve dietro di loro dall’orizzonte.

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CAPITOLO II Poté finalmente sprofondarsi nella comoda poltrona di velluto rosso offerta dalla prima classe; dette un’occhiata veloce ai baga-gli sistemati sulla reticella sopra la sua testa e stabilito che tutto era in ordine, compiacendosi per la qualità della carrozza, soc-chiuse gli occhi e si lasciò pigramente andare al ritmico battito delle ruote sulle giunzioni dei binari che gli giungeva ovattato, e quel rumore, alternato ai fischi che provenivano di tanto in tanto dalla locomotiva, gli infondeva un piacevole senso di rilassante tranquillità; in fondo le sue ferie erano già cominciate, le ferrovie austriache poi erano ottime e a lui quindi, che si sentiva in buone mani, non restava altro da fare che godere di quei momenti di re-lax e si scosse solo nel momento in cui udì il barista di bordo che, suonando il campanello del suo carrello portavivande, tutto di lu-cido acciaio, stava iniziando il giro per offrire ai viaggiatori caffè caldo, tè, cioccolato, croissant, oppure deliziosa torta Sacher. Sbirciando l’orologio vide che segnava le sette e realizzò che l’ora gli era congeniale per sistemare un po’ lo stomaco, dato che il vi-aggio doveva durare almeno altre sei ore, meglio quindi approfit-tarne ed il profumo invitante del caffè espresso appena fatto, frammisto a quello dei dolci ancora caldi, che proveniva dal cor-ridoio, fece il resto convincendolo definitivamente a rompere gli indugi e affogare sogni e malinconie in quelle prelibatezze, all’insegna dei migliori auspici per quel giorno e per quelli a veni-re: per quella volta la tentazione poteva benissimo vincere sui

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buoni propositi di fare un po’ di dieta per non esibire strane “pie-ghe” in spiaggia! Consumata la sua veloce ma non per questo frugale colazione, vi-sto il bis di dolci e la tazza gigante di cappuccino che si era con-cesso, decise di fare una puntatina alla toilette, cosa che in verità - più che la risposta ad un reale bisogno - era la scusa per consen-tirgli di curiosare, ispezionando palmo a palmo la carrozza, dato che il suo scompartimento al momento era occupato solo da lui, e scoprì pertanto che a bordo non vi erano molte persone: perlopiù famiglie con bambini o anziani come lui diretti alle spiagge italia-ne. «Meglio così», disse a se stesso, e si infilò rapido nell’angusto spazio che profumava di quel particolare odore che solo il sapone delle ritirate dei treni emanava, compiacendosi di trovare tutto molto pulito, in ordine e con il porta-salviette di carta ben fornito. Ritornò, dopo essersi sciacquato il viso e ben pettinato, rapida-mente al suo posto deciso a schiacciare un pisolino per cercare di recuperare almeno in parte le ore di sonno immolate la notte pre-cedente alla seppur nobile causa della vacanza. Lo spettacolo delle montagne coronate dal bianco dei ghiacciai, il verde dei grassi prati di erbe alpine cosparsi di fiori dai mille e mille colori, i ripidi versanti coperti di fieno steso ad asciugare, le mandrie di mucche all’alpeggio e la bellezza dei laghi che si in-travedevano all’orizzonte fecero il resto e Rudolph sprofondò in un piacevole sonno, privo di sogni e molto, molto ristoratore. Lo risvegliarono bruscamente, riportandolo alla realtà, le grida dei ferrovieri che annunciavano l’arrivo del treno alla dogana di Coc-cau e lo stridio dei freni sulle ruote: ansimante, la locomotiva si stava fermando per consentire ai doganieri di salire a bordo ed ef-fettuare i controlli di routine necessari per varcare la frontiera con l’Italia e nel mentre si strofinava con una mano gli occhi, con l’altra cercava di estrarre dalla tasca interna della giacca il passa-porto.

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Nella concitazione del momento si accorse di non essere più solo. Scusandosi per non essersene accorto prima, delineò - nel contro-luce - la figura che ora occupava con lui lo scompartimento, se-duta sul sedile di fronte al suo, e capì che apparteneva a una si-gnora, una bella signora, alla quale tese la mano presentandosi. «Rudolph Kneipp», mormorò malcelando un certo imbarazzo, consapevole del fatto di essere un incallito buon russatore, e nel prenderle la mano ne udì il nome: «Elena, piacere, Elena Casa-grande per la precisione», rispose garbatamente la signora esiben-do un perfetto tedesco e un bellissimo sorriso a prova di pignolo dentista e due occhi color turchese che - mentre ne incrociava lo sguardo - per un attimo gli bloccarono il sorriso e gli strizzarono lo stomaco e uno strano brivido gli corse giù per la schiena sino ad arrivare ai piedi, per poi velocemente risalire e arrivare al viso che immediatamente arrossì rendendolo simile più ad un semaforo che ad un essere umano, seppur imbarazzato. Rimase per un po’ goffo e senza parole tenendole la mano. Poi respirando a fondo riprese tono e le chiese con cortesia, com-prendendone facilmente le origini, dato il nome, se avesse preferi-to conversare in italiano piuttosto che in tedesco, dal momento che anche lui sarebbe stato in grado di farlo volentieri, conside-randolo anche un ripasso utile per il soggiorno che si apprestava a fare. Lei, annuendo, accettò e, quasi avesse avuto di fronte un vecchio amico, vincendo la sua endemica timidezza, cominciò a raccon-targli, guardandolo un po’ negli occhi ed un po’ abbassando lo sguardo, la sua storia fatta di ricordi tristi frammisti ad altri più belli, come migliaia di altre storie che parlano di emigrazione e di un difficile inserimento sociale in una terra che non era quel-la d’origine, in un luogo che non era più la propria patria, lasciata controvoglia e con il cuore in frantumi per sfuggire ad un destino intriso di fame e miseria. Le era capitato così di dover interpretare - vivendolo però di per-sona - questo sfortunato copione quando aveva ventisei anni, il giorno in cui, in quel tristemente noto novembre del 1951, i suoi

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dovettero lasciare il Polesine a causa della paurosa alluvione che allora sconvolse uomini, cose e terra, al punto di segnare indele-bilmente storie, destini e paesaggi; una maledizione piovuta dal cielo come l’acqua impietosa che, cadendo per mesi, fece sì che altra acqua uscisse dal Po, mescolando cielo e terra in un girone infernale in cui tutto sembrava impazzito, mietendo vite umane, seminando ovunque terrore pianto e distruzione e cancellando al suo passaggio quasi ogni segno del passato per lasciare un sudario fatto di acqua limacciosa e fango che solo anni di duro lavoro a-vrebbero poi rimosso. Ricordava la sua modestissima casa, costruita con tanti sacrifici e privazioni, il luogo dove erano custodite le sue cose più care, gli animali da cortile, l’orto sull’argine maestro: quel suo piccolo mondo nella golena del Po a Guarda Veneta e gli ordinati e fitti pioppeti che per chilometri ne inverdivano le sponde, i folti can-neti - regno della selvaggina - negli stagni formati dal fiume dopo le piene di primavera. Una vita dura fatta di lavoro, di duro lavoro, come mondina o la-vandaia, a pesca sul fiume oppure a fare i mattoni nelle fornaci per la ricostruzione dopo i tremendi anni della guerra e del terrore, e in quel Polesine, era duro rifarsi una vita dopo gli stenti e le pri-vazioni di un periodo bellico così lungo e l’assenza del padre tor-nato a casa, dopo sei anni di servizio militare, dalla campagna di Russia quando sia lei che la madre ne avevano perse sia le tracce che la speranza di rivederlo vivo. Pregarono tanto e Dio le ascoltò e tanta fu la gioia quando quell’uomo, scampato alla ritirata del Don, macilento e anzitempo invecchiato, apparve come un’ombra sulla porta che non riusciro-no a proferire una sola parola: solo un silenzioso commosso ab-braccio e il Po che con lo sciabordio dell’acqua contro le barche legate al pontile, sembrava piangere assieme a loro lacrime cri-stalline di gioia, di ritrovata gioia e speranza, di profondo amore che mai avrebbe cessato d’esistere nei loro cuori, nell’incerta luce del tramonto in un’atmosfera che non aveva più i contorni del tempo e dello spazio.

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Poi, dopo una pausa durata pochi anni, la fuga, perché il fiume un giorno si ribellò, ruppe quelle briglie che gli uomini avevano eret-to per costringerlo ad una dimensione che non era più la sua per rendere sicure le terre circostanti, stracciò una tregua che durava da tempo come del resto aveva fatto tante altre volte nei secoli precedenti, ma stavolta con una furia incontrollabile, con una di-mensione biblica e chi poté - come loro - lasciò tutto al fiume per avere salva la vita. Al centro di raccolta profughi di Padova appresero che in Germa-nia, a Monaco di Baviera, cercavano personale per i ristoranti e le birrerie e seppero che gli italiani erano ben accetti. Di qui la deci-sione di non voltarsi indietro e, come migliaia di altri polesani, di andare verso un nuovo destino, visto che in patria vi sarebbero stati nuovamente soltanto fame e stenti. Dapprima furono aiutati da connazionali, emigrati già da qualche anno, che li ospitarono e li aiutarono a trovare un lavoro per tutti e tre presso un ristoratore, il signor Victor Tappert, il quale gestiva un locale molto grande, nella periferia della città, frequentato per-lopiù da immigrati di tutte le nazionalità, soprattutto nei fine set-timana. Victor era un buon uomo e confessò di aver fatto la guerra in Ita-lia senza mai aver sparato un solo colpo di fucile e di avervi tro-vato dappertutto gente buona e impaurita dagli eventi, e forse per questo, oltre che per il suo naturale carattere, era così disponibile verso gli italiani. Poi, grazie al suo interessamento, trovarono un alloggio tutto per loro in un quartiere di nuova costruzione: un appartamento non grande e lussuoso ma comodo, funzionale e grazioso, per di più poco distante dal ristorante dove lavoravano, ma soprattutto - e la cosa li convinse - alla portata delle loro tasche. Papà Mario era diventato il factotum del signor Victor, il quale ne aveva apprezzato fin da subito le doti di cuoco in grado di prepa-rare gustose pietanze a base di pesce e altre cose buone della cu-cina italiana: dai primi ai dolci, dagli arrosti al pane biscotto cotto nel forno a legna,

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Era un grande lavoratore e lo si vedeva in tutte le situazioni dove servissero ingegno, pazienza e manualità: non vi erano infatti più al ristorante tavoli o sedie che dondolassero, rubinetti che goccio-lassero; pareti e finestre poi erano sempre in ordine e in più, quando c’era il pienone, era conteso fra i tavoli per il suo spirito e la sua bonarietà, sin quasi ad essere preferito a qualche cameriere “titolare”. Elena e la madre, la signora Sofia, aiutavano in cucina, seguivano il guardaroba del ristorante e anche quello di casa Tappert, e si poteva vedere facilmente quanto fossero in gamba guardando e sentendo il profumo di tovaglie e tovaglioli sui tavoli e le camicie lavate e stirate da loro che, effettivamente, spiccavano tra le altre. Alla cassa stava sempre un giovanotto che aveva attirato da subito l’attenzione di Elena; alto, capelli e occhi bruni, di poche parole e quasi schivo, ma molto cortese e sempre disponibile: si trattava di Stephan Tappert, figlio del titolare e perciò mamma Sofia aveva redarguito la figlia a lasciar perdere eventuali idee per non correre rischi di licenziamento proprio allora che le cose sembrava pren-dessero una piega buona. Ma il destino aveva già provveduto, perché a Stephan non erano passati inosservati quegli splendidi occhi e quella figura dalle movenze, a suo dire, così conturbanti al punto che, visto che an-che per lui era passato da un po’ il tempo dell’adolescenza, si de-cise dichiarandole di essersene perdutamente innamorato. In principio Elena fu titubante ma poi, vinte le sue paure e anche quelle dei genitori, le fu facile corrispondere quel sentimento che le parve così pulito e onesto, e poco dopo, nell’estate del 1953, si sposarono con grande partecipazione di parenti, clienti e amici; alcuni giunti dall’Italia, altri da diverse località della Germania, e quel giorno gli echi delle canzoni italiane si propagarono per mol-te ore in tutto il quartiere. Il doganiere che scusandosi si affacciò all’uscio dello scomparti-mento per chiedere i documenti, ruppe quel monologo e poco do-po, quando, fatte le sue necessarie verifiche, l’uomo uscì, Ru-dolph le chiese di continuare ed Elena per un attimo si scusò pen-

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sando di annoiarlo con la sua storia, che lei considerava troppo uguale a quella di molti altri suoi connazionali emigrati e pertanto scontata e a rischio di diventare mortalmente monotona e priva di interesse. Rudolph, guardandola intensamente negli occhi, la pregò di conti-nuare, a meno che non fosse motivo di tristezza per lei il farlo, ri-vangando magari fatti e circostanze spiacevoli o poco convenienti da riportare. «Nulla di questo», ribatté sorridendo Elena che riprese a racconta-re della sua vita, di quanto fossero stati pieni di vita gli anni se-guenti, pieni dell’amore di Stephan, nella condivisione del loro lavoro, di gioie e tristezze, come la morte quasi simultanea dei suoi genitori: prima la mamma, portata via in breve tempo da un male incurabile, e poi il papà - dopo neanche un mese - che non volle più saperne di vivere una vita senza la sua Sofia, e se la guerra non era riuscita a dividerli, neanche la morte ci riuscì! L’amore di suo marito e la loro perfetta intesa, seppur non allieta-ta dalla nascita di figli, l’aiutarono a superare questa ulteriore e dura prova, e l’affetto dei suoceri, che in lei vedevano una secon-da figlia, servirono ad Elena per ritrovare almeno in parte quei punti di riferimento, quelle certezze che le erano state così repen-tinamente portate via. Riprese quindi una vita ritmata dal lavoro, fino allo stordimento, e dall’affetto della famiglia, con la speranza che, alla stregua di co-me progredivano gli affari, si affermasse un po’ alla volta anche la certezza di un futuro perlomeno tranquillo e privo di sgradite sor-prese, in quanto riteneva di aver già pagato il suo grosso tributo di sofferenza al destino. Cominciò ad interessarsi all’amministrazione del locale, migliorò il servizio e la cucina, che rimase rigorosamente all’italiana, e nel volgere di qualche anno furono in grado di aprire altri due locali in zone più signorili della città, assumendo molto personale pro-veniente dall’Italia, soprattutto per occuparsi delle gelaterie, che erano diventate ormai settori trainanti e affollatissimi dei loro ri-storanti.

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Con soddisfazione si ritrovò anche un cospicuo conto in banca, cosa che non aveva mai creduto potesse avverarsi, ma ciò che maggiormente l’appagava era l’amore che provava per suo mari-to, il quale sempre più cercava di ricambiarla ricoprendola di mil-le attenzioni e premure; e fu così che dopo molte insistenze la convinse a prendersi una vacanza tutta per lei, «magari proprio in Italia», le disse. Un tuffo al cuore la scosse pensando alla sua Italia che da quel lontano 1951 non aveva più potuto rivedere. Il giorno di Natale del 1968 trovò, sotto l’albero, una busta che conteneva dei depliant turistici che proponevano viaggi e soggior-ni in Italia, da scegliere per la successiva estate, unitamente al numero di telefono dell’agenzia viaggi con cui poter programmare il tutto per tempo. Lasciò trascorrere le festività di fine anno, dato che per loro erano momenti di intenso lavoro, e attese con trepidazione che, con l’arrivo di marzo, le giornate si allungassero un po’; dopodiché, approfittando di un pomeriggio libero, si avviò speditamente ver-so l’indirizzo che si era segnata sul taccuino, camminando felice al primo timido sole che quel giorno illuminava la Baviera, con le nevicate e il gelo dei mesi precedenti ridotti ad un lontano ricordo e tutte le premesse per una primavera veramente bella ed una esta-te certamente calda e forse diversa dalle precedenti. Passeggiando lentamente, assaporò il profumo di quell’aria pulita e frizzante che lentamente le scendeva nei polmoni regalandole sensazioni che non aveva mai provato; apprezzava improvvisa-mente quella brezza che le scompigliava dolcemente i capelli e l’animo e le sembrava di trovarsi in uno strano e sconosciuto uni-verso in cui le cose di tutti i giorni apparivano stranamente diver-se dal solito, sino al punto da chiedersi se fosse lei in quel mo-mento diversa da come normalmente si sentiva, o forse avvertiva una sorta di strano, ma non per questo spiacevole, presagio. Scoprì d’incanto il suo essere donna passando davanti alle vetrine e guardò maliziosamente il suo etereo profilo che si specchiava, con paura all’inizio di vedersi invecchiata, ma con soddisfazione,

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poi, nel constatare di essere ancora molto piacente e di portare molto bene i suoi quarantaquattro anni; scoprì anche cose che le ristrettezze economiche prima e la fretta poi, fattasi consuetudine, non le avevano fino ad allora permesso di conoscere e apprezzare. Si riempì così gli occhi guardando i bei negozi, disseminati nei viali centrali, pieni di ogni ben di Dio, con vetrine elegantissime e insegne luminose accese anche se il sole era ancora alto. Decise di concedersi un caffè, che ordinò ad un impettito camerie-re, seduta ad un tavolino, «come i veri signori», disse tra sé e sé, nel miglior bar di Monaco e fantasticò per diversi minuti sulla scelta del viaggio che stava per fare, così incerta sulla meta, per-ché tutti i posti che l’avevano incuriosita dalle foto sembravano splendidi, finché - terminato il caffè e rompendo gli indugi - si avviò all’agenzia viaggi che la stava aspettando. Un’impiegata giovane e molto convincente, oltre che per la sua professionalità, anche per i suoi modi gentili e affabili, le propose decine di favolose opportunità per la successiva estate, sottoline-ando che le prenotazioni fatte per tempo erano le migliori, sia per i prezzi che per la varietà della scelta; era però difficile orientarsi in quella montagna di dati e opuscoli che illustravano centinaia di alberghi disseminati nelle più belle località turistiche d’Italia, dal Lago di Garda alla Sicilia, o sparse sulle Alpi, al punto d’essere presa da una crisi d’indecisione e pertanto decise di tornare a casa per riflettere e discuterne con Stephan: «Giorno più giorno meno, non cambieranno molto le cose», disse, e salutando la sua interlo-cutrice, uscì dall’agenzia. Scelse un taxi per rientrare al più presto, non riuscendo a trattene-re più le emozioni di quel pomeriggio, che per altre signore sareb-be forse stato un anonimo tassello in una beata normalità, ma per lei aveva rappresentato una vera e propria importante novità, al punto di essere assunto a simbolo di un nuovo periodo della sua vita. Per un attimo il suo animo intimamente umile e semplice le pro-pose il dubbio se stesse un po’ esagerando, ma quelle ore le ave-vano fatto capire com’era attraente, pur senza esagerare, il mondo

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fuori dalla grigia routine del quotidiano ed ebbe vittoria facile il desiderio repentino di raccontare questa cascata di stati d’animo a suo marito, per condividerli ed esternargli il suo amore e la rico-noscenza per averle fornito quell’occasione così particolare. Il ristorante era chiuso quella sera e i suoceri, come in tutte le altre giornate di chiusura, erano andati a far visita ad una coppia di vecchi amici per cenare assieme a loro e fare le solite interminabi-li partite a carte in una stanza satura del fumo di troppe sigarette, bevendo poi qualche birra in allegra compagnia. Il “rito” si perpetuava da anni, e pertanto cercò di sbrigarsi nel preparare a suo marito un menù semplice e stuzzicante allo stesso tempo, magari una pastasciutta con tante verdure colorate come piaceva a lui. Apparecchiò la tavola come fosse un giorno di festa e si tuffò let-teralmente in bagno per rimettersi in ordine ed essere poi pronta ad offrirgli, con un sorriso, l’aperitivo preferito al suo rientro a casa. Riflettendo, mentre era intenta ai fornelli, decise che da quel gior-no in poi sarebbe stato più giusto che tra di loro ci fossero più momenti di intimità che nel passato, se li meritavano, principal-mente per il sentimento che li legava, ma anche perché la vita era un soffio e quindi ogni attimo arrivava e passava alla velocità del vento; meglio quindi approfittarne e pensare di più alla “loro vi-ta”, perché ne avevano diritto e sarebbe stato oltremodo avvilente arrivare poi alla terza età e capire di aver sciupato troppe opportu-nità e troppo tempo immolandoli alla seppur giusta causa del la-voro. La serata trascorse come lei aveva immaginato e si compiacque che nel finale, accoccolati davanti al caminetto acceso, si fosse parlato poco di ferie e molto più di loro, di come avrebbe dovuto essere il loro futuro, di quando - raggiunta la sicurezza economica - avrebbero potuto andare in vacanza assieme per scoprire luoghi mai visti e magari recarsi più spesso in Italia per visitare i luoghi che l’avevano vista bambina e tutte le altre cose stupende di cui è pieno il Bel Paese, anche se questo secondo aspetto in fondo non

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entusiasmava molto Stephan, che amava poco viaggiare e lo face-va principalmente se costretto per affari. Nemmeno lo sfiorava l’idea di allontanarsi molto dalla sua Monaco di Baviera. Bene quindi per il progetto di future vacanze assieme per vedere cose mai viste, ma preferibilmente vicine e non al di là delle Alpi com’era l’Italia! Per Elena i giorni passarono con una velocità crescente man mano che la data della partenza si avvicinava, anche se talvolta un certo senso di colpa l’assaliva al pensiero di lasciare marito e suoceri al lavoro, mentre lei era in vacanza. Il normale e comprensibile rimorso era poi alimentato dal fatto che Stephan sembrava sempre più triste con il passare dei giorni, pur celando al meglio il suo stato d’animo al punto che nessuno se ne accorse al di fuori di lei. Finalmente, verso la fine di luglio, giunse la tanto sospirata tele-fonata dell’agenzia per confermarle che tutto era pronto, sia per il viaggio che per il soggiorno in Italia. Era quindi necessario che lei passasse a ritirare sia i biglietti che la conferma per l’albergo; cosa che fece il giorno seguente; ag-giunse però una prima tappa a Vienna per poter salutare alcuni amici italiani, originari di Polesella - un paese vicino a dov’era nata lei, anch’esso lungo il Po - che non vedeva dal 1951, essendo anch’essi emigrati durante l’alluvione. Partì il 29 luglio da Monaco di Baviera e salendo sul treno non riuscì a trattenere le lacrime, pervasa com’era da una strana com-mozione frammista ad un’emozione mai provata che le dava qual-che crampo allo stomaco e le impediva di ragionare, al punto di riuscire a proferire un solo “ciao” mentre scioglieva il tenero ab-braccio di suo marito e i suoceri le stampavano un affettuoso ba-cio sulle guance. In fondo era la prima volta che partiva sola, per di più per far ri-torno nella sua Italia: una vacanza programmata per molti giorni, e il riflettere su ciò fugò ogni dubbio circa l’origine delle sue pau-re, e perciò strinse i pugni e salì sul treno.

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I pochi giorni trascorsi con la famiglia Rossi furono un ritorno al passato tra ricordi, sensazioni ed emozioni che in quel passato e-rano stati per molto tempo religiosamente sepolti, quasi a non vo-lerli violare per una forma di paura ancestrale o rispetto, o forse per l’umana e non confessata paura che, riesumandoli, potessero riaprirsi vecchie e dolorose ferite nei loro cuori, mai del tutto completamente rimarginate. Ma ovviamente si sa che il tempo è un’ottima medicina, e anche delle cose più tristi, via via, se ne sfumano i contorni e le negati-vità, al punto di poterne tranquillamente parlare, dopo molti anni, con serenità e pacatezza, pur riservando loro il rispetto che la memoria merita. Fu felice Elena di quella pausa che le permise alla fine di riconci-liarsi, come del resto avevano fatto i Rossi, con quel destino in-grato e maledetto, finalmente, sia con le parole che con il cuore, dopo tanto tempo, forse troppo, correndo il rischio di farsi irrime-diabilmente per sempre male dentro l’anima. L’epilogo le diede una gran pace interiore e il vedere altri che, come lei, avevano sofferto le stesse pene ed erano riusciti, come in una sorta di esorcismo, a scacciarle, alla fine la convinse che la vita - quella che sarebbe venuta - sarebbe senz’altro stata miglio-re, e allora via… verso quell’avventura, verso nuovi giorni - sep-pur sconosciuti - con una grande carica interiore. Era salita sull’Adria Express, girovagando di vagone in vagone senza alcuna voglia di trovare il posto prenotato, bensì alla ricer-ca di uno scompartimento ove potessero esserci dei compagni di viaggio che le ispirassero fiducia, e il vedere quel distinto signore che se la russava di santa ragione forse l’intenerì e certamente l’incuriosì, al punto da farla entrare in punta di piedi, sorridendo, per poi sedersi e attenderne silenziosamente il risveglio. In fondo al russare era poi abituata in quanto anche suo marito molto spesso, soprattutto quando era molto stanco, ce la metteva tutta a tener sveglia la casa producendo un rumore che sembrava quello di un aereo a bassa quota; la cosa quindi le suonò molto familiare e non si stupì nemmeno nel constatare di essersi seduta

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proprio sul sedile a lei riservato: forse anche qui il destino stava decidendo per lei. Sorrise divertita quando Rudolph fu svegliato di soprassalto dal doganiere alla frontiera e nella concitazione cercò disperatamente i documenti nella tasca sbagliata, tentando contemporaneamente di reggersi gli occhiali e di salutare lei. «Benedetti uomini», sentenziò tra sé, convincendosi che la pre-senza di una donna era veramente necessaria per loro, e si chiese subito dopo se mai costui ne avesse una e perché, in caso afferma-tivo, non fosse lì con lui. Subito dopo però pensò, facendo ammenda, che non erano in fon-do fatti suoi e che la sua era la tipica curiosità della comare al mercato e pur tuttavia non resistette a lungo e, rompendo gli indu-gi, preferì chiedere direttamente all’interessato qualcosa sul suo conto. Rudolph, che era uomo di mondo e loquace, non si fece pregare due volte e raccontò tutto della sua vita e di come, dopo tanti guai, stesse puntando un po’ tutto quello che aveva, in termini di voglia di vivere, su quella vacanza. Il treno cominciò a rallentare ed entrambi, sbirciando fuori dal fi-nestrino, si accorsero di essere sul ponte che porta dalla terrafer-ma verso Venezia: il Ponte della Libertà, e sullo sfondo la città dei Dogi, la più evanescente, magica e strana esistente al mondo, unica e irripetibile, con la sua storia, i suoi intrighi, i suoi segreti, le sue eteree bellezze, la sua fragilità, sospesa com’è tra cielo e mare, così luminosa e viva in quella giornata d’estate, pullulante di vita con un gran viavai di barche, e i gabbiani che sfioravano l’acqua per riprendere repentinamente il volo dopo aver catturato una preda. Il cavallo d’acciaio rallentò con grande stridore di freni e fermò la sua corsa alla stazione Santa Lucia e i macchinisti scesero dalla cabina orgogliosi di essere, come sempre, in perfetto orario per-mettendo in questo modo ai viaggiatori di scendere per una mezz’oretta mentre loro provvedevano a rifornire il tender di ac-qua e carbone.

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Rudolph ed Elena si affacciarono alla vicina porta del vagone e immediatamente furono catturati da quella ordinata confusione, dal vociare dei giornalai, dei portabagagli, e bastò loro scambiarsi uno sguardo per decidere che era meglio uscire e immergersi in quel mondo per respirare l’aria meravigliosa che spirava dal mare e increspava leggermente l’acqua dei canali e della laguna facen-do dondolare pigramente gondole e vaporetti nel loro incedere verso mete incomprensibili per viaggiatori di terra.

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