Teorie del cinema · 2015-11-17 · per un racconto dal titolo Cinematografo cerebrale, Georges...

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Teorie del cinema

Georges Méliès nei panni del diavolo in un suo film del 1901

1. Le teorie sommerse

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Le «teorie sommerse» Nei primi anni di vita del

cinema, tra cronache e

annunci, manuali di fotografia

animata e cataloghi di

pellicole disponibili, fanno

capolino timidi interventi, non

ancora incanalati in uno

spazio precipuo, che cercano

di approfondire il senso della

nuova invenzione e capire il

tipo di esperienza individuale

e sociale che esso innesca.

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Le «teorie sommerse» L’impegno maggiore è rivolto

a mettere a fuoco l’essenza

del fenomeno (deposito di

emozioni o riflesso oggettivo

della realtà, arte o tecnica), le

ragioni del suo successo e i

possibili usi futuri (documento

storico, informazione,

intrattenimento economico),

ma anche ciò di cui è il

simbolo (progresso scientifico,

modernità, potenziamento

della percezione sensibile).

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Matuszewski

Nel 1898 Bolesław Matuszewski, collaboratore dei Lumière,

pubblica a Parigi due opuscoli (Une nouvelle source de l'histoire

e La photographie animée) in cui si interroga sulla natura della

nuova forma espressiva e tenta di definirne i contorni futuri,

individuandone le grandi possibilità tecniche e ritenendolo una

straordinaria «fonte storica» con la stessa dignità dei documenti

tradizionali. Tanto da proporre un utopistico progetto di filmare

tutti gli eventi della storia umana per farli confluire in un archivio

totale e assoluto.

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In una delle primissime cronache che danno conto della serata

inaugurale del Café des Capucines, si può leggere: "Quando

queste macchine saranno a disposizione di tutti, quando tutti

potranno fotografare gli esseri a loro cari, non più nella forma

immobile ma nel loro movimento, nella loro azione, nei loro gesti

familiari, con la parola sulle labbra, la morte cesserà di essere

assoluta" (in "La poste", 30 décembre 1895).

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Gor’kij

Significativa la posizione assunta da Maksim Gor’kij in un

articolo del 1896: sia pur con una forte connotazione negativa, si

segnala lo scarto del nuovo mezzo rispetto alle arti tradizionali e

la sua vicinanza ai meccanismi tipici dell’età moderna che hanno

profondamente modificato le abitudini percettive dell’uomo.

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«I nostri nervi si logorano e si indeboliscono ogni giorno di più,

ne perdiamo sempre più il controllo e sempre meno reagiscono

alle ʻsemplici impressioni dell’essereʼ e con sempre maggiore

avidità agognano nuove, penetranti, inusuali, appassionanti,

strane impressioni. Il cinematografo gliele fornisce, e i nervi da

un lato diventano più raffinati, dall’altro più ottusi".

Gor’kij

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L’esplorazione del campo

Nel corso del 1907, il convergere di alcuni significativi interventi

segnala la tendenza del cinema a installarsi anche nei discorsi

«colti». Henri Bergson gli concede uno spazio ne L’Évolution

créatrice, Edmondo De Amicis lo usa come modella narrativo

per un racconto dal titolo Cinematografo cerebrale, Georges

Méliès ne fornisce una bozza di sistematizzazione ne Les vues

cinématographiques, in cui traccia un ritratto della professione

registica, una prima tipologia dei prodotti cinematografici e i

lineamenti di una poetica del fantastico.

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Il 18 maggio, infine, su La Stampa,

Giovanni Papini pubblica La

filosofia del cinematografo, un

articolo in cui, accanto ad alcune

considerazioni non banali sul

cinematografo come epitome della

vita contemporanea, aggiunge un

appello agli intellettuali a occuparsi

seriamente della nuova invenzione.

Papini

Torino 1926. Il cantiere del Cinepalazzo

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Papini afferma che se i

«filosofi», si dedicassero

alle cause della «quasi

miracolosa moltiplicazione

di cinematografi»,

potrebbero trovare nel

cinema «nuovi motivi di

pensiero, e chissà?,

perfino nuove emozioni

morali e suggerimenti di

nuove metafisiche».

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Lo scrittore si chiede i motivi per cui gli spettacoli cinematografici

incontrano così presto il favore della gente. È facile: sono brevi,

meno faticosi e meno costosi del teatro. Ma dietro c’è un’altra

ragione, meno banale. Queste brevi fantasmagorie che non

esigono troppa cultura, troppa attenzione, troppo sforzo,

assecondano uno dei caratteri decisivi della vita moderna, la

tendenza all’economia (intesa qui come una specie di calcolo

razionale: «ottenere, colla stessa quantità di tempo, di fatica o di

denaro, un maggior numero di cose»), col vantaggio di occupare

un solo senso, la vista, «artificialmente sottratto alle distrazioni

per mezzo della wagneriana oscurità della sala».

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Ci sono altre ragioni più specifiche. Il cinematografo propone la

riproduzione nel tempo di avvenimenti vasti e complicati,

preclusi al teatro («Dinanzi alla bianca tela di un cinematografo

noi abbiamo la sensazione che quegli avvenimenti sono i veri

avvenimenti veduti come si potrebbero vedere in uno specchio

che potesse seguirli vertiginosamente nello spazio»); offre lo

spettacolo di grandi avvenimenti reali a pochissimi giorni dal loro

accadere, in modo più vivo dei quotidiani e delle riviste; e infine

concede alla nostra curiosità un mondo di meraviglie, le «scene

di trasformazioni», la realizzazione visiva delle fantasie più

inverosimili, come un oppio senza cattive conseguenze.

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Ma questo ancora non basta. Perché dovrebbero occuparsene

anche i filosofi? perché «il mondo quale ce lo presenta il

cinematografo è pieno di un grande insegnamento di umiltà».

«Esso è fatto soltanto di piccole immagini di luce, di piccole

immagini a due dimensioni, e che danno, nonostante ciò,

l’impressione del moto e della vita». Esso è il mondo fatto colla

materia più eterea ed angelica, senza profondità, senza solidità,

simile al sogno, rapido, fantastico, irreale. (…) Contemplando

quelle immagini effimere e luminose di noi stessi ci sentiamo

quasi come dei che contemplino le loro creazioni, fatte a loro

immagine e somiglianza.

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Come noi guardiamo le figurine dei cinematografi, qualcuno

potrebbe guardare noi - che ci stimiamo concreti, reali, eterni –

come immagini colorate che corrono velocemente alla morte per

dar piacere ai suoi occhi. «E come noi scopriamo, grazie alla

fotografia, l’imperfezione di certi movimenti, il ridicolo di certi

gesti meccanici, la grottesca vanità delle smorfie umane, così

quei divini spettatori sorrideranno di noi, che ci agitiamo su

questa piccola terra, percorrendola furiosamente in ogni senso,

inquieti, stupidi, avidi, buffi, finché la nostra parte finisce e

scendiamo ad uno ad uno nella silenziosa oscurità della morte».

René Magritte, The false mirror, 1928

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Ricciotto Canudo (1877-1923)

Ma il merito di aver aperto una

prima fondamentale prospettiva

teorica viene generalmente

attribuito a Ricciotto Canudo,

giornalista e scrittore autore nel

1911 de La naissance d’un sixième

art. Essai sur le cinématographe

indicato da Jean Epstein come il

«manifesto» dell’«estetica del

cinema», visto come il culmine

delle arti spaziali (architettura,

scultura e pittura) e temporali

(musica, poesia e danza).

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Barese trapiantato a Parigi nel 1902, Canudo incarna la figura

dell’intellettuale eclettico d’inizio secolo, che si occupa di arte,

musica, letteratura e teatro e frequenta i circoli dell’avanguardia.

Nel 1908 pubblica sul Nuovo giornale di Firenze Trionfo del

cinematografo, in cui descrive il cinema come arte plastica in

movimento e sintesi delle forme espressive tradizionali.

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In un’epoca in cui il cinema è ancora in cerca di un’identità

precisa, lo scrittore pugliese ne intuisce tra i primi le potenzialità

espressive e al tempo stesso ne individua l’attitudine a istituire

nuove forme di «culto» e di «rito collettivo», nella convinzione

che nel mondo moderno sia proprio l’arte a dover colmare il

vuoto lasciato dall’eclisse delle credenze religiose.

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Nel suo saggio del 1911(ora introvabile) Canudo afferma:

«Al cinematografo tutto è fatto per mantenere l’attenzione tesa,

quasi sospesa, per non allentare la morsa con cui la mente dello

spettatore è inchiodata allo schermo animato. Il gesto celere,

che si afferma qui con una precisione mostruosa, come su un

orologio a figure, esalta il pubblico moderno abituato a vivere

sempre più velocemente possibile. La vita ʽʽrealeʼʼ è dunque

rappresentata nella sua quintessenza, stilizzata nella rapidità».

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Un altro passo svela la novità del suo punto di vista sugli

spettatori dell’epoca: «Il pubblico moderno è un ‘astrattivo’

ammirevole poiché sa godere delle astrazioni più assolute

dell’esistenza. All’Olympia, per esempio, è stato possibile

vedere gli spettatori applaudire freneticamente il fonografo che

si trovava sul palco, agghindato di fiori e la sui tromba di rame

rilucente aveva appena terminato di suonare un duetto

d’amore… La macchina trionfava, il pubblico applaudiva il

fantasma sonoro di attori, lontani o morti. È con tale spirito che

gli spettatori accorrono al teatro cinematografico».

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Destreggiandosi tra varie combinazioni di arti moderne e muse

classiche, dopo aver parlato di una «sesta arte», nel 1911, trova

dieci anni dopo un fortunato approdo nella formula di «settima

arte», creando il Club des Amis du Septième Art (con proiezioni

d’essai che anticipano i futuri cineclub), fondando la Gazette des

sept arts (che non gli sopravvive) e scrivendo saggi, molti dei

quali verranno pubblicati postumi nel 1927 col tiolo L’usine aux

images (L’officina delle immagini).

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Ricciotto Canudo

Il cinema sarebbe per Canudo la sintesi delle arti del tempo e

dello spazio. Partendo dal presupposto che queste dimensioni

siano rispettivamente alla base delle due arti fondamentali, la

musica (ritmo) e l’architettura (plastica) - da cui, direttamente o

indirettamente, derivano le arti secondarie (la musica ha

generato la poesia e la danza, l’architettura ha generato la

pittura e la scultura) - il cinema come «officina delle immagini» e

«scrittura di luce» chiuderebbe questo «circolo in movimento» in

quanto fusione e culmine delle sei arti precedenti.

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Ricciotto Canudo

Serie di «quadri» in «movimento», arte plastica che si sviluppa

secondo le norme dell’arte ritmica, il cinema sembra nato per

offrire la rappresentazione totale dell’anima e del corpo, «un

racconto visivo fatto con immagini, dipinto a pennellate di luce», e

se il teatro non è che un’espressione «individuale», il cinema

sarà espressione «visuale e collettiva», per cui cesserà di essere

la copia di un teatro che a sua volta è la copia della vita.

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Ricciotto Canudo

La riflessione di Canudo si ispira

al mito wagneriano dell’opera

d’arte totale (ben incarnata nel

cinema) e al modello letterario

ed esistenziale dannunziano,

entrambi indigesti agli ambienti

culturali parigini. Perciò la sua

concezione dell’arte e le

intuizioni profetiche, troppo

moderne per i conservatori e

«passatiste» per l’avanguardia,

restano un po’ in ombra.

Canudo ritratto da Picasso, nel 1923

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Gli interventi dell'intellettuale italiano fissano le grandi direttrici

del dibattito: il confronto tra il cinema e le altre arti, la sintesi dei

diversi ambiti espressivi, il carattere moderno del nuovo mezzo

e la necessità di andare oltre l’idea semplice di «riproduzione

della realtà».

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Vachel Lindsay

Nel mondo anglosassone, il primo

testo teorico dedicato al cinema è

The art of moving image (in

origine The religion of the

movies), del poeta Vachel

Lindsay, pubblicato nel 1915 negli

Stati Uniti, un libro che influenza

largamente il dibattito sul

confronto tra il cinema e le altre

arti, sollevandolo dalla

dimensione puramente

giornalistica.

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Vachel Lindsay

Lindsay è convinto che la nuova

arte sia in grado di trasformare il

ritmo del tempo e l’estensione

dello spazio tradizionali e perciò

anche di trasformare l’intera

umanità sotto il profilo

percettivo, artistico e spirituale,

naturalmente sotto la guida

degli Stati Uniti.

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L’idea che il nuovo mezzo sappia

mettere in rilievo sia i valori plastico-

figurativi (la composizione delle forme, la

distribuzione della luce ecc.), sia i valori

dinamico-cinetici (il movimento nelle

inquadrature e nel passaggio da

un’inquadratura all’altra) lo porta a

individuare tre grandi modi d’essere del

cinema: ossia «scultura in movimento»,

«pittura in movimento» e «architettura in

movimento».

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Nel volume Lindsay riconosce al

cinema la stessa forza spirituale della

poesia: entrambe le arti contribuiscono

a una nuova mitologia della nazione,

creando figure simboliche, rivelazioni

straordinarie, che attraverso i film

diventano universalmente accessibili,

grazie alla immediata comprensibilità

delle immagini cinematografiche, un

linguaggio fortemente evocativo pur

nella sua intuitività e immediatezza.

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Lindsay individua tre differenti

tipologie di film: quelli

d’azione, i melodrammi e,

infine, gli «splendor pictures»

(a loro volta divisi in favolistici,

patriottici, religiosi e di

massa): i film epici che

mettono in scena grandi folle

ed eventi storici, come The

birth of a nation di Griffith.

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Nella visione profetica del cinema come strumento di evoluzione

spirituale, il poeta negli stessi anni dedica i suoi versi ad alcune

attrici (Mae Marsh e Mary Pickford), che canta come figure

angeliche che attraverso lo schermo collegano la dimensione

umana e quella divina.

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Hugo Münsterberg

Degli effetti psichici parla anche il contributo

dello psicologo Hugo Münsterberg apparso

nel 1916, The photoplay. A psychological

study, che propone analogie tra la visione

cinematografica e la sfera del mentale. La

distanza dalla realtà di alcuni elementi

specifici del cinema (il montaggio, il primo

piano, gli effetti speciali etc.) fanno ’sì che

lo spettatore, davanti alle immagini del film,

ricostruisce un mondo che ha più rapporti

con le leggi mentali che con le leggi fisiche

dell’universo reale (e di quello teatrale).

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Per quanto possa sembrare paradossale, il cinema europeo

non trova nella cultura positivistica un sostegno unanime e

una forma di legittimazione come strumento di progresso.

Saranno piuttosto la cultura simbolista e i rappresentanti del

decadentismo a scorgervi uno strumento privilegiato di

allargamento dei poteri conoscitivi

Gian Piero Brunetta

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Agli spunti sparsi si aggiunge un diffuso entusiasmo per la

modernità, di cui il cinema viene individuato come l’emblema più

chiaro, in particolare nelle straordinarie pagine del romanzo di

Luigi Pirandello Si gira…, uscito a puntate nel 1915 e poi

pubblicato nel 1925 in una nuova edizione con il titolo Quaderni

di Serafino Gubbio operatore.

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Futurismo La particolare consonanza del cinema con il

tema della modernità ritorna in moltissimi

contributi di quegli anni, fortemente

sottolineata dalle avanguardie artistiche e

soprattutto dal Futurismo italiano, che lo

propone come somma delle esperienze più

avanzate per il prevalere in esso dei tratti

tipici della vita moderna: i macchinari, il

movimento, la rapidità, il sovrapporsi delle

percezioni, l’automatismo delle reazioni.

Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile, 1912-13

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Il cinematografo non attrae però tutti gli intellettuali allo stesso

modo, anzi. Soprattutto in Europa, dove si sviluppano le analisi

culturalmente più complesse, gli orientamenti si presentano più

articolati e tutt’altro che concordi: mentre alcuni si lanciano ad

allargare il Parnaso per infilarci la nuova Musa, altri negano alla

nuova forma estetica perfino la possibilità di produrre vera arte.

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A fianco degli studiosi e degli artisti più sensibili ai temi della

modernità, pronti a intuire il prodigioso ventaglio di opportunità

sventolato dal nuovo mezzo, molti intellettuali ne avvertono il

timbro invadente e volgare, ancor più temibile per la facilità con

cui penetra fra le masse popolari, segnalando la minaccia per le

basi tradizionali della cultura, lo scompaginamento dei processi

di acculturazione della nascente società di massa e la possibilità

di avvelenamento degli approvvigionamenti morali e spirituali

che alimentano la qualità della vita quotidiana.

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Lukács

György Lukács, nel

1913, descrive il

cinema come “il luogo

del decadimento della

grande cultura”.

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Lukács

la sua spiegazione, destinata a

essere contraddetta dell’avvento

del sonoro, poggia sul motivo

profondo dell’assenza di voce

nel cinema: «il cinema

rappresenta delle azioni come

tali, non il loro movente ed il loro

significato; le figure dello

schermo si muovono, ma non

hanno anima, e ciò che loro

accade è un mero accadimento,

non è destino».

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Lukács

«Per questo le scene del cinema sono

mute. L’imperfezione della tecnica è

una causa solo apparente: la parola

parlata, espressione sonora del

concetto, è veicolo del destino;

soltanto in essa e attraverso di essa si

realizza la coerente continuità

psicologica degli uomini drammatici».