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MODULAZIONI DELLA TRATTAZIONE NELLA RECENTE RIFORMA ITALIANA DEL PROCESSO CIVILE SPUNTI MINIMI DI RAFFRONTO COMPARATO Vincenzo Ansanelli Professore, Università di Genova Resumo: O novo artigo 183 bis do CPC italiano confere ao juiz, diante de controvérsias simples ou de fácil solução, a possibilidade de “mudar o procedimento” ou de permitir que uma controvérsia introduzida mediante o procedimento ordinário observe o procedimento sumário. Partindo da análise da referida norma, são inicialmente examinadas em perspectiva histórica as diversas soluções adotadas no ordenamento italiano para a escolha do procedimento aplicável a uma controvérsia e, depois, desenvolve-se uma breve comparação com as tendências de reforma ora em curso a tal respeito em outros ordenamentos. Riassunto: Il nuovo articolo 183 bis del c.p.c. italiano consente al giudice, per le controverse più semplici o di facile soluzione, di "mutare il rito", ossia di ordinare che una controversia introdotta con il rito ordinario venga trattata e decisa mediante l'applicazione del rito sommario di cognizione. Partendo dall'analisi di tale disposizione, vengono prima esaminate in prospettiva storica le diverse soluzioni adottate nell'ordinamento italiano in ordine alla scelta del procedimento applicabile alla singola controversia e, successivamente, viene svolta una breve comparazione con i trend di riforma in atto a tale riguardo in altri ordinamenti. Palavras Chave: Reforma do processo na Itália – Passagem do rito ordinário ao sumário – Precedentes Históricos – Modelos processuais em confronto. Parole Chiave: Riforme del processo in Italia - Trattazione - Passaggio dal rito ordinario al rito sommario - Precedenti storici - Modelli processuali a confront SOMMARIO. - 1. Il mito della riforma perenne e le istanze ricorrenti - 2. Rito sommario, rito ordinario e mutamento del rito nella tradizione italiana - 3. L’art. 183 bis c.p.c. - Spunti minimi di raffronto comparato - 4. Brevi considerazioni conclusive 1

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MODULAZIONI DELLA TRATTAZIONE NELLA RECENTE RIFORMA ITALIANA DEL PROCESSO CIVILE

SPUNTI MINIMI DI RAFFRONTO COMPARATO

Vincenzo AnsanelliProfessore, Università di Genova

Resumo: O novo artigo 183 bis do CPC italiano confere ao juiz, diante de controvérsias simples ou de fácil solução, a possibilidade de “mudar o procedimento” ou de permitir que uma controvérsia introduzida mediante o procedimento ordinário observe o procedimento sumário. Partindo da análise da referida norma, são inicialmente examinadas em perspectiva histórica as diversas soluções adotadas no ordenamento italiano para a escolha do procedimento aplicável a uma controvérsia e, depois, desenvolve-se uma breve comparação com as tendências de reforma ora em curso a tal respeito em outros ordenamentos.

Riassunto: Il nuovo articolo 183 bis del c.p.c. italiano consente al giudice, per le controverse più semplici o di facile soluzione, di "mutare il rito", ossia di ordinare che una controversia introdotta con il rito ordinario venga trattata e decisa mediante l'applicazione del rito sommario di cognizione. Partendo dall'analisi di tale disposizione, vengono prima esaminate in prospettiva storica le diverse soluzioni adottate nell'ordinamento italiano in ordine alla scelta del procedimento applicabile alla singola controversia e, successivamente, viene svolta una breve comparazione con i trend di riforma in atto a tale riguardo in altri ordinamenti.

Palavras Chave: Reforma do processo na Itália – Passagem do rito ordinário ao sumário – Precedentes Históricos – Modelos processuais em confronto.

Parole Chiave: Riforme del processo in Italia - Trattazione - Passaggio dal rito ordinario al rito sommario - Precedenti storici - Modelli processuali a confront

SOMMARIO. - 1. Il mito della riforma perenne e le istanze ricorrenti - 2. Rito sommario, rito ordinario e mutamento del rito nella tradizione italiana - 3. L’art. 183 bis c.p.c. - Spunti minimi di raffronto comparato - 4. Brevi considerazioni conclusive

1. – I recenti interventi di riforma realizzati con la l. n. 162 del 2014 confermano quella che appare essere una convinzione radicata del legislatore italiano, ossia la fiducia quasi taumaturgica di poter risolvere i problemi endemici di malfunzionamento della giustizia civile semplicemente modificando o introducendo nuove regole tecniche del processo. Senza, cioè, accompagnare tali interventi con le straordinarie misure strutturali e organizzativi che sarebbe stato, per converso, lecito attendersi1. Come è stato efficacemente rilevato «la storia della

1 La letteratura sul punto è davvero piuttosto vasta. Fra i moltissimi possibili riferimenti v. CARPI, Linee di tendenza delle recenti riforme processuali, in questa rivista, 2006, p. 849 ss., secondo il quale «mezzi, uomini, organizzazione del lavoro sono problemi difficili da risolvere ed allora si preferisce la strada della grande illusione: la modifica della fase introduttiva». Nello stesso senso PROTO PISANI, Linee di una politica di pronto intervento nella giustizia civile, in Il giusto processo civile, 2006, p. 221 ss.; ID., Intervento sconsolato sulla crisi dei processi civili a cognizione piena, in Foro it., 2008, V, c. 11 ss.; ID., I processi a cognizione piena in Italia

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giustizia civile nel nostro paese coincide con la storia dei tentativi di ricondurre a dimensioni accettabili i tempi occorrenti per risolvere le controversie civili”2. Ed in effetti, l’espressione mito della riforma perenne descrive in maniera icastica una certa propensione della nostra dottrina, per la quale la riforma del processo ha rappresentato una sorta di mantra, una formula che proprio in quanto ripetuta più e più volte sembra essere in grado di produrre effetti benefici3.

A tale riguardo appare di un qualche interesse rilevare come i recenti interventi di riforma non siano dettati dal perseguimento di obiettivi di giustizia sostanziale, bensì dalla preoccupazione delle incidenze negative che una giustizia troppo lenta potrebbe avere sul nostro sistema economico. In questa prospettiva l’intento del legislatore è trasformare «quello che attualmente è un fattore di appesantimento della crisi in un possibile volano per la crescita economica»4. Si tratta di un risultato che, anche sulla scorta delle suggestioni comparatistiche, con riferimento alla fase introduttiva del processo di cognizione viene perseguito mediante l’adozione del modello del cosiddetto case management giudiziale. E ciò specie nella declinazione che mediante la valorizzazione dei principi di flessibilità processuale e proporzionalità nell’allocazione delle risorse giudiziarie consente al giudice di adattare lo schema procedimentale della singola controversia al relativo tasso di complessità5. Ed in effetti, i principali modelli di riferimento della riforma sono stati individuati nel processo civile inglese e in quello francese, entrambi da tempo caratterizzati dall’esistenza di moduli trattori differenziati in relazione al valore e alla complessità della controversia. Anche se è stata avanzata l’ipotesi che la scelta del legislatore possa essere stata dettata dalla volontà di avvicinarsi, in modo ideologicamente neutrale, ad un modello di processo in cui al giudice è affidato un ruolo direttivo forte.

Bisogna tuttavia aggiungere che l’intervento di riforma in commento verrà probabilmente ricordato non tanto per le sparute modifiche della fase introduttiva, quanto piuttosto per ulteriori elementi di novità. Il riferimento è, in primo luogo, alla chiarezza con la quale il legislatore ha esplicitato sia le linee di intervento sia i risultati attesi. La road-map tracciata dal d.d.l. approvato in data 17 dicembre 2013 prevedeva in primo luogo un’opera di

dal 1940 al 2012, in Foro it., 2012, V, c. 311 ss.; CAPPONI, Il diritto processuale civile «non sostenibile», cit., p. 861. In precedenza CIPRIANI, Il processo civile fra vecchie ideologie e nuovi slogans, in Riv. dir. proc., 2003, p. 455 ss.; COSTANTINO, Il processo civile tra riforme ordinamentali, organizzazione e prassi degli uffici: una questione di metodo, in questa rivista,1999, p. 77 ss.; TARUFFO, Le riforme della giustizia civile, 2° ed, Torino, 2000, p. 235.2 Cfr. TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, Bologna, 1980, p. 167. Tale rilievo è del resto molto ricorrente nella nostra dottrina. V, senza alcuna pretesa di completezza, CARPI, Le riforme della giustizia civile in Italia verso il XXI secolo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2000, p. 115; CAPPONI, Il diritto processuale civile «non sostenibile», in Riv. trim. dir. proc. civ. 2013, p. 861. Sull’incidenza economica dell’eccessiva durata dei procedimenti vds., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, VERDE, Il processo civile sotto l’incubo della ragionevole durata, ora in ID., Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012, p. 58.3 Cfr. SASSANI, Il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Riv. dir. proc., 2012, p. 1429.4 Gli incisi sono tratti dalla relazione che accompagna il testo del d.d.l. delega n. 1662 approvato dal consiglio dei ministri il 17 dicembre 2013, consultabile sul sito http://www.senato.it. Il d.d.l. prende le mosse dal rapporto Doing Business della banca mondiale, secondo il quale l'Italia negli ultimi anni avrebbe scalato «ben 37 posizioni nella classifica sull’efficienza della giustizia («ranking enforcing contracts») passando dal 140º al 103º posto»; un risultato che, tuttavia, non incide sul «dato del rilevantissimo contenzioso pendente, soprattutto in appello e della sistematica violazione del termine di ragionevole durata del processo». Sul contenuto del d.d.l. delega v. CAPPONI, Postilla alla prima lettura sulla delega legislativa al Governo «per l’efficienza della giustizia civile», in www.judicium.it; FINOCCHIARO Il Ddl sul processo civile, in Guida al diritto, 2014, 3, p. 21; PASSANANTE, Brevi note critiche sul d.d.l. per l’efficienza del processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2014, p. 819; CANELLA, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2014, p. 847.5 Riguardo alla nozione di complessità processuale v. DONDI, Aspetti della complessità e riscontri nella nozione di complessità processuale, in DONDI (a cura di), Elementi per una definizione di complessità processuale, Milano, 2011, p. 3.

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«semplificazione e velocizzazione delle procedure», ove il riferimento espresso era a quelle concernenti il primo grado di giudizio. Veniva poi prospetta l’introduzione di percorsi trattatori diversificati per determinate tipologie di controversie. Un terzo settore di intervento avrebbe dovuto responsabilizzare maggiormente tutte le parti del processo; senza che fosse tuttavia prevista la possibilità di perseguire tale risultato anche mediante la previsione di apposite sanzioni miranti a colpire comportamenti complessivamente abusivi delle parti.

Sulla scorta di tali linee di intervento, il ministro della giustizia aveva provveduto quindi ad annunciare in maniera quantomeno ottimistica i risultati attesi: 1) ridurre la durata media dei processi di primo grado ad un anno; 2) dimezzare l’arretrato, oggi pari a oltre cinque milioni di procedimenti pendenti in primo grado; 3) creare corsie preferenziali per la risoluzione delle controversie riguardanti le famiglie e le imprese6.

Appare comprensibile come il tenore particolarmente ambizioso degli obiettivi prefissati in sede governativa avesse destato notevole interesse e curiosità, specie riguardo all’individuazione delle specifiche soluzioni tecniche in cui si sarebbero tradotte queste scelte di politica legislativa7.

Relativamente alla soluzione contenuta nel nuovo art. 183-bis c.p.c., rubricato «passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione», è stato in parte già rilevato come la stessa si fondi su una philosophy di intervento manifestamente diversa da quella alla base delle altre misure adottate. Queste ultime, infatti, inserite in parti del decreto emblematicamente rubricate «trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti pendenti» e «negoziazione assistita da un avvocato», sembrano fondarsi sul «presupposto condiviso che lo Stato da solo non ce la può fare e che, anche nel campo della giustizia occorre fare leva sul principio di sussidiarietà»8.

Si tratta, in effetti, di interventi che sembrano inserirsi organicamente in quel trend definito anche di privatizzazione della giustizia civile che aveva conosciuto il suo culmine con l’emanazione del c.d. rito societario. Con ciò a intendere l’attribuzione a soggetti privati di funzioni tradizionalmente rientranti fra quelle caratterizzanti l’esercizio della potestà giurisdizionale9. E in effetti, nell’intervento riformatore in commento risulta esplicitata la «scelta politica di valorizzare quanto più possibile la professionalità e le competenze del mondo dell'avvocatura quale attore primario nel contesto dell'amministrazione della Giustizia», a cui affidare la «responsabilità di un fattivo concorso alla deflazione preventiva del contenzioso civile»10.

Per converso, come poc’anzi accennato l’introduzione dell’art. 183-bis c.p.c. sembra muoversi in una prospettiva che, in maniera certo semplificante, appare definibile come

6 Gli obiettivi fissati dal ministero della giustizia sono consultabili all’indirizzo www.giustizia.it/giustizia/it.7 Cfr. VERDE, Senza risorse eque e un’impostazione realistica la riforma della giustizia civile rischia l’ennesimo flop, in Guida al diritto, 39, 2014, p. 7.8 Cfr. VERDE, op. loc. cit.9 Come è noto l’articolato normativo del processo societario riproponeva sostanzialmente il testo contenuto nella c.d. «bozza Vaccarella» (dal nome del presidente, Prof. Romano Vaccarella, della relativa commissione ministeriale). Il testo elaborato dalla commissione Vaccarella è confluito nel d.d.l. presentato il 12 luglio 2002, approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 2003, presentato al parlamento il 19 dicembre 2003 e mai posto in votazione. Per alcuni commenti al testo della «bozza Vaccarella» v. DONDI, Impostazione ideologica e funzionalità nella riforma italiana recente del processo civile, in Pol. dir., 2004, p. 251; ID, Questioni di efficienza della fase preparatoria nel processo civile statunitense (e prospettive italiane di riforma), in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, p. 161; PROTO PISANI, Verso una nuova stagione di riforme del processo civile?, in Foro it.,2002, V, c. 191; RICCI, Verso un nuovo processo civile?, in Riv. dir. proc., 2003, p. 221; CONSOLO, Esercizi imminenti sul c.p.c.: metodi asimmetrici e penombre, in Corr. Giur., 2002, p. 154; CEA, La bozza Vaccarella tra dubbi e perplessità, in Foro it., 2003, V, c. 151; SCARSELLI, Brevi osservazioni sui lavori della Commissione Vaccarella per la riforma del processo civile, in Foro it., 2002, V, 2003, p. 233.10 Gli incisi sono tratti dalla relazione tecnica che accompagna il d.d.l. 1162 di conversione in legge del d.l. 132 del 12 settembre 2014, consultabile all’indirizzo www.senato.it.

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tipicamente post-moderna11. Il riferimento è all’introduzione o meglio alla normativizzazione nel nostro ordinamento della nozione di complessità, utilizzata quale criterio o parametro differenziante le regole processuali da applicare per la definizione delle singole controversie. Con ciò il legislatore italiano sembra, in effetti, finalmente inserirsi in un trend di riforma da tempo in atto in altri ordinamenti. Una generale tendenza riformatrice che pare trovare il suo presupposto comune nella definitiva presa d’atto della circostanza che le controversie non sono tutte uguali; rectius, posseggono ognuna un diverso e specifico grado di complessità processuale. E, di qui, la necessità di prevedere percorsi processuali flessibili (e dunque variamente modulabili) in relazione al diverso tasso di complessità della controversia. Si tratta di una prospettiva che dovrebbe fornire un sufficiente background per procedere, anche nel nostro ordinamento, ad allocare le limitate risorse processuali in maniera proporzionale, quindi, efficiente12.

L’adozione di una simile prospettiva imporrebbe, invero, correlativamente di abbandonare schemi processuali fissi e preconfezionati, al fine di configurare una tutela giurisdizionale in grado di garantire un trattamento processuale individualizzato, caso per caso. Nella versione italiana ciò dovrebbe confluire in uno schema procedimentale da elaborare di volta in volta (secondo la prospettiva deformalizzata dell’articolo 702-ter c.p.c.) in modo da ottimizzare il dispendio di energie e risorse. Ciò ovviamente nell’ottica del raggiungimento di standard elevati sotto il profilo costituzionalmente garantito e di recente divenuto anche nella nostra giurisprudenza valore preponderante rispetto ad altri della ragionevole durata media delle controversie civili13.

Si tratterebbe, in definitiva, del recepimento della nozione, da tempo diffusa anche presso la nostra dottrina, di effettivo case management della controversia. Una gestione efficiente da realizzare a opera del giudice in un’ottica di forte cooperazione con le parti14.

A tale riguardo, e quale parziale conclusione di questa breve premessa, appare tuttavia possibile rinvenire nell’operato del legislatore italiano una prospettiva o ottica di intervento dal contenuto probabilmente più minimale. E invero, non sembra infondato ritenere che mediante l’introduzione dell’art. 183-bis c.p.c. il legislatore non abbia inteso strutturare un modello processuale complessivamente caratterizzato da un elevato tasso di flessibilità e, quindi, variamente modulabile in relazione alla complessità della lite. Ma, in una prospettiva meno ambiziosa, semplicemente prevedere un iter procedimentale semplificato da applicarsi «ai procedimenti civili di minore complessità, per la cui decisione è sufficiente una semplice istruttoria»; e ciò in modo da ottenere una «più efficiente razionalizzazione delle risorse umane e strumentali negli uffici giudiziari»15.

11 Vds. nuovamente DONDI (a cura di), Elementi per una definizione di complessità processuale, cit., passim.12 Per un singolo riferimento interno alla nozione di proporzionalità in ambito processuale si rinvia a CAPONI, Il principio di proporzionalità nella giustizia civile: prime note sistematiche, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2011, p. 389.13 Da ultimo vds., anche per gli opportuni approfondimenti C. GRAZIOSI, La nuova figura del giudice civile tra riforme processuali, moduli organizzativi e protocolli d’udienza, in BERTI ARNOALDI VELI (a cura di), Gli osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza, Bologna, 2011, p. 167. Secondo l’autrice «la celerità processuale si è costituzionalmente elevata a elemento ontologico della giustizia, scavalcando l’impostazione tradizionale per cui rileva fondamentalmente l’esattezza della decisione piuttosto che il momento in cui si raggiunge».14 Per alcune considerazioni a questo riguardo v. DE CRISTOFARO, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, p. 282. In una prospettiva eminentemente comparatistica vds., fra gli altri, gli scritti contenuti in TROCKER - VARANO (a cura di), The Reforms of Civil Procedure in Comparative Perspective, Torino, 2005, passim; TORQUATO - D’AGOSTINI, Spunti di raffronto comparato sulla recente riforma del processo civile, in Il giusto processo civile, 2011, p. 251. Sia poi consentito il rinvio anche a ANSANELLI, Profili comparati della trattazione civile, in Pol. dir., 2012, p. 239.15 Gli incisi sono tratti dalla relazione tecnica che accompagna il d.d.l. 1162 consultabile sul sito www.senato.it.

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Ciò posto, non pare tuttavia potersi escludere a priori che la disposizione in commento possa costituire uno strumento di applicazione più generalizzata, in grado di introdurre nel processo italiano quel tasso di flessibilità rispondente a diffuse esigenze di migliore allocazione delle risorse processuali. Ciò principalmente in quanto la nuova norma offre al giudice una scelta che non si sostanzia in un’opzione fra due possibili riti già predeterminati nella loro modulazione processuale. L’alternativa si pone, infatti, fra l’applicazione di un rito rigidamente predefinito (quello ordinario, appunto) e l’applicazione di un modello completamente deformalizzato (in questo senso semplificato, come configurato dall’articolo 702-ter c.p.c.). Essendo in questa seconda ipotesi la determinazione sia della scansione temporale sia l’individuazione delle necessarie attività di preparazione/istruzione della causa completamente rimessa alla discrezionalità del giudice.

In quest’ultima modulazione parrebbero rinvenibili anche spazi per un maggiore coinvolgimento delle parti. Una collaborazione che potrebbe essere indotta dal giudice attraverso la valorizzazione dello strumento del calendario del processo (art 81-ter disp. att.). Una disposizione che nonostante il suo scarso utilizzo pratico (per ragioni non sondabili in questa sede, fra quali il ristretto ambito operativo e l’assenza di specifiche sanzioni per il mancato rispetto dei relativi termini) parrebbe precipuamente applicabile per la realizzazione di forme di time scheduling delle attività istruttorie16.

2. In effetti, quello che di veramente innovativo per l’ordinamento italiano l’art. 183-bis prevede è l’attribuzione in via esclusiva al giudice del compito di valutare quale sia il percorso processuale concretamente adattabile e rispondente alle esigenze della singola controversia. In questa prospettiva, pare possibile rilevare come già prima dell’intervento di riforma in commento il legislatore italiano avesse introdotto alcuni elementi di flessibilità nella scelta del rito. Tuttavia tale effetto-meccanismo (flessibilità) veniva rimesso esclusivamente alla parti e, di regola, a un loro espresso o tacito accordo. Così, ad esempio, in forza del previgente art. 70-ter disp. att. c.p.c. (introdotto con la l. n. 80 del 2005) le parti avrebbero potuto optare per l’applicazione del rito societario in luogo di quello ordinario17. Del resto, su altro versante è sempre stata riconosciuta alle parti la possibilità di accordarsi per rinunciare all’appendice di trattazione scritta prevista dal 6° comma dell’art. 183 c.p.c. in modo da rendere più snello e rapido il procedimento. Così, ancora, le parti hanno sempre avuto la possibilità di sostituire ab origine la tutela giurisdizionale ordinaria con le forme dell’arbitrato. Una prospettiva che sembra ulteriormente favorita (e incoraggiata) dalla

16 Sull’istituto del calendario del processo v. TORQUATO, Di alcuni cliché in tema di calendrier du procès e calendario del processo - Qualche puntualizzazione in merito al nuovo art. 81-bis disp. att. c.p.c. , in Il giusto processo civile, 2010, p. 1233. In una prospettiva più generale v. DE CRISTOFARO, Case management e riforma del processo civile, cit., p. 292.17 L’art. 70-ter disp. att. c.p.c. prevedeva che l’atto di citazione potesse contenere l’invito al convenuto a notificare al difensore dell’attore la comparsa di risposta ai sensi dell’art. 4 del http://www.altalex.com. In caso di accettazione da parte del convenuto il processo sarebbe proseguito nelle forme del processo societario. La disposizione denotava un certo favor del legislatore verso l’applicazione del rito societario, considerato evidentemente come esempio di speditezza processuale. Difficili questioni interpretative circa la sopravvivenza dell’articolo 70-ter c.p.c. sono sorte successivamente all’abrogazione del d.lgs. n. 5 del 2003. In dottrina sembra essere preferita la soluzione dell’avvenuta «abrogazione implicita» dell’art. 70-ter disp. att. Con specifico riferimento a tale profili v. BOCCIO, Riforma del processo civile: la mancata abrogazione dell’art. 70 ter disp att. c.p.c., in http://www.altalex.com. Più in generale, circa il contenuto e la portata applicativa dell’art. 70-ter disp. att., vds. MENCHINI, Il rito sull’accordo delle parti ai sensi dell’art. 70 ter c.p.c., in Foro it., 2005, V, c. 207; TISCINI, Il rito convenzionale: note a margine dell’art. 70 ter disp. att. c.p.c., in www.judicium.it; SANDULLI, La riforma del processo civile 2005 – 2006, Roma, 2006, p. 29, il quale, con evidente coloratura negativa, aveva rilevato come la norma consentisse una sorta di «rito shopping».

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riforma in commento, che introduce la possibilità per le parti di accordarsi anche nel corso del processo per il trasferimento della controversia in sede arbitrale18.

Sostanzialmente non inerenti al tema della flessibilità del procedimento né propriamente alla possibile scelta del rito, risultano invece le numerose ipotesi nelle quali l’applicazione di un rito speciale a cognizione piena è imposta ratione materiae dal legislatore. E invero, come da tempo rilevato da autorevole dottrina, nel corso della seconda metà del XX secolo obiettivi di effettività della tutela sono stati perseguiti dal legislatore essenzialmente mediante la tecnica della differenziazione della tutela giurisdizionale: ossia attraverso la proliferazione di riti speciali a cognizione piena applicabili in ragione delle diverse situazioni sostanziali coinvolte nella controversia. Un fenomeno dall’estensione tale da aver condotto parte della dottrina a qualificare come residuale l’applicazione del processo ordinario di cognizione19.

Descrivono un fenomeno ulteriormente diversificato le ipotesi nelle quali alle parti è consentito optare per l’adozione di riti speciali a cognizione sommaria in luogo del rito ordinario per il ricorrere di esigenze sostanzialmente cautelari. In questi casi l’opzione concessa alla parte è subordinata alla sussistenza di particolari requisiti (sostanzialmente riconducibili, pur con diverse colorazioni, alle nozioni di fumus boni iuris e periculum in mora) comprovanti, come appena detto, la sussistenza di più o meno intense ragioni di natura cautelare. A queste possono poi essere genericamente accomunate ulteriori ipotesi, nelle quali risultano tuttavia preminenti esigenze di efficienza del sistema: ossia procedimenti sommari di natura non cautelare caratterizzati dalla tecnica della tutela inaudita altera parte (come quello disciplinato dagli artt. 633 e ss. c.p.c.), ovvero ulteriori ipotesi tipiche la cui ammissibilità è prevalutata a livello di legislazione generale e astratta dal legislatore, senza che il giudice debba effettuare alcuna verifica in tema di periculum in mora20.

Con più specifico riferimento al tema della presente indagine, è stato per converso anche di recente evidenziato come esigenze da sempre avvertite di effettività della tutela, abbiano indotto in via risalente il legislatore italiano a neutralizzare il tempo della durata anche fisiologica del processo ricorrendo alla tecnica della tutela sommaria, ossia ad una «drastica riduzione delle garanzie del diritto di azione e di difesa allo scopo di pervenire celermente alla emanazione di un provvedimento esecutivo»21. In questa sede può forse risultare di un qualche interesse la sintetica ricostruzione delle diverse modalità tecniche mediante le quali è stata configurata nel nostro ordinamento la possibilità (per le parti o per il giudice) di optare per l’applicazione di un rito avente caratteristiche (più o meno spiccate) di sommarietà rispetto al processo ordinario di cognizione. E ciò si intende a prescindere dalla sussistenza di requisiti o esigenze tipicamente o atipicamente cautelari.

Si tratta un’alternativa (quella fra l’applicazione del rito ordinario o sommario) già presente in pressoché tutti i codici preunitari; e che, come è noto, ha finito per caratterizzare in maniera del tutto incisiva l’applicazione del c.p.c. del 1865.

In effetti, seppur in maniera diversificata per ampiezza di applicazione e soluzioni tecniche adottate, in tutti i modelli di processo civile vigenti negli Stati pre-unitari si registrava la presenza di riti sommari. Procedimenti che, rispetto a quello ordinario, si caratterizzavano essenzialmente per la ricorrente presenza di tre elementi: struttura tendenzialmente deformalizzata, trattazione essenzialmente orale e presenza di maggiori poteri del giudice nella trattazione e istruzione della controversia.

18 Il riferimento è all’art. 1 del d.l. 132 del 12 settembre 2014.19 Con riferimento al fenomeno della «proliferazione dei riti speciali» e della conseguente «residualità» del processo ordinario risultano obbligati i riferimenti alle opere di PROTO PISANI, Verso la residualità del processo a cognizione piena?, in Foro it., 2006, V, c. 58; ID., Dai riti speciali alla differenziazione del rito ordinario, in Foro it., 2006, V, c. 81 ss.; ID., Contro l’inutile sommarizzazione del processo civile, in Foro it., 2007, V, c. 44.20 Cfr. PROTO PISANI, Il principio di effettività nel processo civile italiano, in Il giusto processo civile, 2014, pp. 834 - 837.21 Cfr. PROTO PISANI, op. cit., p. 834.

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In questo contesto la scelta fra il rito ordinario e quello sommario veniva alternativamente rimessa all’accordo delle parti o alla previsione cogente compiuta dal legislatore ratione materiae. L’art. 16 del Regolamento generale del processo civile pel Regno Lombardo - Veneto prevedeva, ad esempio, la possibilità che le parti si accordassero per instaurare il processo verbale in luogo del processo ordinario. Tale procedimento si caratterizzava principalmente per l’estrema concentrazione e oralità delle attività processuali. In particolare, era previsto che le parti fossero obbligate a scambiarsi gli atti introduttivi, i documenti e le altre prove di cui intendevano avvalersi, prima dello svolgimento dell’udienza unica, nella quale dovevano svolgersi oralmente tutte le attività di trattazione e istruzione22. Il Regolamento Toscano prevedeva l’applicazione del procedimento sommario per le controversie in materia esecutiva, in quelle commerciali e di lavoro, nonché per le cause «di minor valore»23. Ai sensi dell’art. 517 il processo sommario avrebbe dovuto concludersi nel termine massimo di un mese e non si rinveniva una distinzione netta fra fase preparatoria e istruttoria, essendo possibile per il giudice risolvere la controversia in ogni momento. Ma il dato che pare storicamente di maggior rilievo è che con la riforma realizzata con il motu proprio del 1838 si elimina la distinzione fra i due riti, in favore dell’adozione generalizzata del procedimento sommario a tutte le tipologie di controversie24. Nel Codice per lo Regno delle due Sicilie (art. 497) si recepisce pressoché pedissequamente la soluzione adottata dal Code francese del 1806, che si sostanzia nell’analitica previsione di «affari sommari» a cui applicare speciali regole procedimentali, quali fra tutte la possibilità di chiedere in ogni momento l’immediata fissazione dell'udienza di discussione. Procedimenti maggiormente snelli, orali e deformalizzati si rinvengono per i giudizi davanti ai conciliatori e ai giudici di circondario25.

Anche il Regolamento per gli Stati Pontifici del 1834 prevede un’elencazione puntuale delle controversie sottoposte all’applicazione del rito sommario, fra le quali quelle commerciali e quelle riservate alla competenza dei governatori (art. 538)26. Nel Codice Sardo del 1859 il rito ordinario, anche denominato «rito formale» risulta da applicarsi a tutte le cause di competenza dei tribunali e delle Corti di appello, e si articola essenzialmente nello scambio di un numero non predeterminato di scritti difensivi (denominati «cedole») che le parti possono interrompere presentando l’istanza di «iscrizione della causa nel ruolo di spedizione». Con riferimento al processo sommario si prevedeva lo scambio di due scritture preparatorie fra le parti, che anticipavano la celebrazione dell’udienza nella quale doveva svolgersi tutta l’attività processuale27.

22 Vds. GIORDANI, Illustrazione al regolamento del processo civile vigente nel Regno Lombardo - Veneto, Venezia, 1845, I, p. 483. Il testo del Regolamento è consultabile in PICARDI - GIULIANI (a cura di), Regolamento generale del processo civile pel Regno Lombardo - Veneto, in Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2003.23 Il testo del Regolamento toscano è consultabile in PICARDI - GIULIANI (a cura di), Regolamento di procedura civile per i tribunali del Granducato di Toscana, Milano, 2004, passim. Per un singolo commento dell’epoca vds. NENCI, Codice di procedura civile pei tribunali del Gran-Ducato di Toscana, Firenze, 1832, p. 111.24 Vds. Prontuario delle sovrane disposizioni relative alla riforma giudiciaria toscana dell’anno 1838 , Firenze, 1838, p. 63.25 Il testo del Codice per lo Regno delle due Sicilie è consultabile in PICARDI - GIULIANI (a cura di), Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Milano, 2004, passim. Per un singolo rinvio ad un autore dell’epoca, vds. CARRILLO, Procedura civile dei giudici di pace del Regno di Napoli, I, Napoli, 1815, p. 11726 Il testo del Regolamento Gregoriano è consultabile in PICARDI - GIULIANI (a cura di), Regolamento giudiziario per gli affari civili di Gregorio papa XVI, Milano, 2004, passim. Per un singolo rinvio v. MENESTRINA, Scritti giuridici vari, Milano, 1964, p. 49.27 I Codici Sardi del 1854 e del 1859 sono consultabili in PICARDI – GIULIANI (a cura di), Codici di procedura civile del Regno di Sardegna, 1854/1859, Milano, 2004, passim. Per un esame dettagliato di tutte le differenze fra i due codici piemontesi, cfr. AIMERITO, La codificazione della procedura civile nel Regno di Sardegna, Milano, 2008, p. 290.

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Mostrando (almeno formalmente) di recepire questa seconda tradizione caratterizzante i codici di più netta derivazione francese il c.p.c. del 1865 predispone, accanto al processo ordinario di cognizione anche un procedimento sommario. Si tratta di un modello processuale estremamente semplificato rispetto a quello ordinario, che si caratterizza per la struttura fortemente deformalizzata e per la maggiore concentrazione delle attività processuali (che, anche in ragione di ciò, risultano da svolgersi in maniera orale). Tale procedimento risultava applicabile in linea di principio soltanto a poche tipologie di controversie, dettagliatamente indicate dall’art. 411. Si prevedeva, tuttavia, anche la generalizzata utilizzabilità del procedimento sommario a opera dell’attore e previa autorizzazione del presidente del tribunale in tutti i casi in cui si manifestasse un interesse alla «pronta spedizione della controversia» (artt. 154 e 389 del c.p.c. del 1865)28. A norma dell’art. 411 del c.p.c. del 1865 il processo sommario trovava applicazione nei giudizi di competenza dei pretori e dei conciliatori, nonché in ulteriori pochi casi specificamente previsti (fra cui le controversie commerciali); mentre, ai sensi dell’art. 389 c.p.c. l’attore poteva chiedere al presidente del tribunale di autorizzare «la citazione in via sommaria». Il che ai sensi dell’articolo 154 c.p.c. poteva avvenire ogniqualvolta il presidente ravvisasse la necessità di una «pronta spedizione». Probabilmente proprio in ragione della maggiore speditezza e semplicità delle forme, nei primi due decenni di applicazione del codice unitario si registrò un crescente ricorso all’applicazione del rito sommario. Ciò anche in conseguenza dell’estrema ampiezza (o sostanziale automaticità) con la quale veniva concessa la relativa autorizzazione presidenziale.

E’ stato rilevato come nella prassi l’autorizzazione presidenziale fosse concessa pressoché sempre. E ciò sia in ragione del fatto che su tale istanza il presidente decideva in assenza di contraddittorio, sia in ragione del fatto «che tale esigenza risulta comune a tutte le controversie»29. Circostanza che finiva per rimettere sostanzialmente alla scelta strategica dell’attore l’applicazione del rito sommario. Ed in effetti, sul finire del XIX secolo l’applicazione del rito formale era limitata al 4% delle controversie30. Il processo sommario risultava regolato sostanzialmente da un’unica disposizione procedimentale, contenuta nell’art. 390 del c.p.c. del 1865. Tale disposizione prevedeva che il procedimento si svolgesse nell’udienza fissata con l’atto di citazione. Comparizione, argomentazione delle proprie difese, assunzione delle prove, formulazione delle conclusioni e relativa discussione avrebbero così dovuto essere compiuti nella (prima ed ultima) udienza. Questa sorta di udienza a istruttoria aperta creava un «procedimento delle sorprese»; a intendersi per l’appunto la celebrazione dell’unica udienza in assenza di un compiuto e preventivo contraddittorio su tutti gli aspetti rilevanti della controversia31.

Si tratta di un percorso applicativo che trova il suo momento topico con l’emanazione della l. n. 107 del 1901, mediante la quale veniva completamente liberalizzata la possibilità per le parti di optare per l’applicazione del rito sommario32. Un modulo procedimentale che, 28 Con riferimento al rapporto fra processo formale e processo sommario, il c.p.c. del 1865 si pone in linea di netta continuità con il codice sardo del 1859; a riguardo, vds. MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1902, p. 398. 29 Cfr. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1905, p. 359. 30 Dati riportati da ROSSI, Procedimento (forme del), in Dig. it, XIX-II, 1908-1913, p. 399.31 Cfr. LA ROSA, Pensieri su possibili riforme del codice di procedura civile, Catania, 1892, p. 28.32 A partire dal 1868 e durante i tre decenni successivi, si susseguirono innumerevoli progetti di riforma del processo sommario (per l’illustrazione dei quali si rinvia a TARZIA - CAVALLONE, I progetti di riforma del processo civile, Milano, 1989, p. 416). Secondo alcuni autori dell’epoca, sarebbe stato opportuno limitare l’utilizzazione del processo sommario, in quanto il processo formale rappresentava «il massimo delle garanzie per i litiganti»; cfr. MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, cit., p. 417. Altri invece propendevano per la necessità di «codificare la prassi»; cfr. MORTARA, op. loc. cit. La l. n. 107 del 1901 si muoveva proprio nella direzione indicata da Mortara. A seguito di tale intervento il processo sommario diviene con alcune rilevanti modifiche strutturali rispetto all’assetto previgente, quali la disciplina dei rinvii e lo scambio dei documenti fra le parti il rito applicabile a tutte le controversie. Permaneva tuttavia la possibile applicazione

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stante la sua estrema diffusione nella pratica del processo, diviene de facto il paradigma processuale alla base del nuovo codice di procedura civile33. In una prospettiva «moderna in senso storico» il legislatore del ‘42 abbandona la contrapposizione rito ordinario/rito sommario in favore dell’applicazione generalizzata di un paradigma processuale tendenzialmente unico. Si tratta di una scelta esplicitamente fondata sulla convinzione (per l’appunto tipicamente moderna) dell’adeguatezza per supposto del rito ordinario ad affrontare e risolvere in maniera efficiente qualsiasi tipologia di controversia. Un’adeguatezza derivante dal ritenuto elevato tasso di flessibilità del nuovo processo ordinario di cognizione che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto consentirne un’applicazione modulata a opera del giudice in ragione delle caratteristiche delle differenti tipologie di controversie34.

E’ probabilmente da ricondurre a tale impostazione o aspirazione moderna il fenomeno della proliferazione dei riti speciali che ha in larga misura caratterizzato la storia delle riforme del nostro processo civile nell’ultimo cinquantennio35. In questo periodo il legislatore ha più o meno consapevolmente realizzato una progressiva differenziazione dei riti civili a seconda delle diverse situazioni di diritto sostanziale coinvolte. Preferendo tale tecnica a quella della possibile diversa declinazione del rito ordinario in ragione della maggiore o minore complessità della singola controversia.

Ed in effetti, come ampiamente noto è proprio dall’esigenza di arginare il fenomeno dell’eccessiva segmentazione del processo civile in molteplici e disorganici riti speciali che trae origine la vicenda riformatrice confluita nella l. n. 69 del 2009, che costituisce uno dei più significativi momenti di riassetto complessivo del nostro modello processuale36.Invero, mediante l’introduzione del «processo sommario di cognizione» viene nuovamente prevista nel nostro ordinamento la possibilità per l’attore di optare in un numero elevatissimo di controversie, coincidente con quello di competenza del tribunale in composizione monocratica fra le forme della tutela ordinaria e l’applicazione di un procedimento maggiormente deformalizzato e tendenzialmente più celere37.

del rito formale su accordo delle parti o qualora il presidente del tribunale ne avesse ravvisato l’esigenza.33 In dottrina è stato tuttavia rilevato il «sostanziale fallimento della legge sul rito sommario del 1901, dovuto alla tendenza a modellare nella pratica il procedimento sommario sulle forme del rito ordinario»; cfr. TARUFFO, Introduzione: le ultime riforme della giustizia civile, in TARUFFO (diretto da), Il processo civile riformato, Bologna, 2010, p. 18.34 A riguardo appaiono emblematiche i rilievi effettuati nella relazione illustrativa (a firma del ministro guardasigilli Grandi), che accompagna la promulgazione del c.p.c. del ‘42. Il paragrafo 16 è infatti espressamente dedicato al «Principio di adattabilità del procedimento alle esigenze della causa», ove si legge che «il codice si è ispirato al principio della adattabilità (o, come anche autorevolmente fu detto, della elasticità) del procedimento: ad ogni tappa del loro iter processuale le parti e il giudice trovano dinanzi a sé proposte dalla legge alla loro scelta molteplici strade: e sta a loro scegliere secondo i bisogni del caso la via più lunga o le scorciatoie»; cfr. MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA, Codice di procedura civile, Roma, 1940, p. 13. 35 V. PROTO PISANI, I processi a cognizione piena in Italia dal 1940 a oggi, cit., p. 330 ss.36 Si veda in questo preciso senso DE CRISTOFARO, Case management e riforma del processo civile, cit., p. 292.37 La produzione scientifica concernente il processo sommario di cognizione è stata in questi anni davvero estremamente vasta. Senza alcuna pretesa di completezza si rinvia a TEDOLDI, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Torino, 2013, passim; DELLA VEDOVA, Il giusto processo sommario, Padova, 2013, passim; VOLPINO, Il procedimento sommario di cognizione e la delega sulla riduzione e semplificazione dei riti , in TARUFFO (a cura di), Il processo civile riformato, Torino, 2010, p. 564; BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, c. 324; BESSO, Il nuovo rito ex art. 702 bis c.p.c.: tra sommarietà del procedimento e pienezza della cognizione, in Giur. it., 2010, p. 722; BIAVATI, Appunti sul nuovo processo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, p. 185; CARRATTA, Le «condizioni di ammissibilità» del nuovo procedimento sommario di cognizione, in Giur. it., 2010, p. 726; LUPOI, Sommario (ma non troppo), in questa rivista, 2010, p. 1225; DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1586; FERRI, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2010, p. 94; LUISO, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. it., 2009, p. 1568; MENCHINI, Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici introdotto con la riforma del 2009 , in Il giusto processo civile, 2009, p. 1101; PORRECA, Il procedimento sommario di cognizione, Milano, 2011, passim; ROMANO, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, in Il giusto processo civile, 2010, p. 165.

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Con l’intervento riformatore del 2009 vengono inoltre dettati i criteri per la «semplificazione dei riti», operazione che verrà completata nel 2011 configurando il nostro ordinamento processuale alla stregua di un modello tripartito sui generis38.

In questo nuovo stream procedimentale la disposizione contenuta nell’art. 183-bis c.p.c. si configura come realmente innovativa, oltre che «carica di implicazioni di politica del processo»39. E in effetti, come si è visto nell’ordinamento italiano mai prima d’ora era stata attribuita al giudice la facoltà di scegliere fra più modelli di trattazione all’interno del medesimo modulo procedimentale costituito dal processo ordinario di cognizione.

Nel merito dell’articolazione normativa, si tratta di una scelta da compiersi previa valutazione giudiziale del grado di «complessità della causa e dell’istruttoria», concernente pertanto la quantità e qualità delle questioni effettivamente controverse, nonché la portata delle attività istruttorie che in relazione alle stesse si prefigurano come necessarie40.E ciò avendo quale criterio orientatore quello di riservare il modulo procedimentale previsto dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c. «ai procedimenti civili di minore complessità, per la cui decisione è sufficiente una semplice istruttoria»41. Si tratta di una valutazione che dovrà essere effettuata alla prima udienza previo svolgimento di contraddittorio «anche scritto» fra le parti. L’eventuale mutamento del rito sarà poi preceduto da un’ulteriore appendice, finalizzata a consentire alle parti di completare la fissazione del proprio thema probandum. Un’attività da realizzarsi alternativamente e secondo una valutazione discrezionale del giudice mediante l’indicazione di prove dirette e prove contrarie «a pena di decadenza» nella medesima udienza; ovvero se richiesto dalle parti mediante la fissazione di una nuova udienza e la concessione di un termine perentorio non superiore a quindici giorni per l’indicazione dei mezzi di prova e delle produzioni documentali, nonché un ulteriore termine perentorio di dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria42.

3. L’art. 183-bis c.p.c. consente dunque al giudice di realizzare, per dirla alla francese, una sorta di passerelle dal rito ordinario al rito sommario. Si tratta, quindi, di un provvedimento mediante il quale nelle cause meno complesse il giudice può ordinare che il processo prosegua con l’applicazione delle regole contenute nell’art. 702-ter c.p.c. Il mutamento del rito dovrebbe avvenire all’udienza di «prima comparizione delle parti e trattazione della causa» mediante l’emissione di un’ordinanza non impugnabile43.

Risulta alquanto evidente l’assonanza della norma in commento con quanto previsto nel più recente, organico e ideologico progetto di riforma globale del codice di rito elaborato dalla 38 Il riferimento è al D.Lgs. n. 1 settembre 2011 n. 150, mediante il quale il legislatore ha compiuto un’operazione di riconduzione di tutti i riti a cognizione piena previste nelle varie leggi speciali, all’interno dei tre modelli processuali presenti nel codice di rito (ossia il processo ordinario di cognizione disciplinato dal Libro II, il processo del lavoro previsto dagli artt. 409 e ss. e il relativamente nuovo processo sommario di cognizione di cui agli art. 702-bis, ter e quater c.p.c.). Per alcuni riferimenti a riguardo v. CARRATTA, La semplificazione dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012, passim;AMENDOLAGINE, Processo civile: la semplificazione dei riti, Milano, 2011, passim; PROTO PISANI, La riduzione e la semplificazione dei riti (D.lg. 1°settembre 2011, n. 150) – Note introduttive, in Foro it., 2012, V, c. 74; CONSOLO, Prime osservazioni introduttive sul D.lg. 150/2011 di riordino (e relativa «semplificazione») dei riti settoriali, in Corr. giur., 2011, p. 1487 ss.; BALENA, La riduzione e la semplificazione dei riti – I modelli processuali, in Foro it. 2012, V, 77 ss. PANZAROLA, in Commentario alle riforme del processo civile. Dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di R. Martino e A. Panzarola, Torino 2013, p. 242.39 Cfr. PASSANANTE, Brevi note critiche sul d.d.l. per l’efficienza del processo civile, cit., p. 820.40 Cfr. CAPONI, Per una sostenibile diversità del processo a cognizione piena, in Foro it., 2012, V, p. 199.41 I corsivi sono tratti dalla relazione che accompagna il d.d.l. 1162, consultabile all’indirizzo www.senato.it.42 Sul meccanismo concernente il mutamento del rito vds. CONSOLO, Un d.l. in bianco e nerofumo, cit., p. 1173; BRIGUGLIO, Nuovi ritocchi in vista per il processo civile, cit., p. 1; nonché GRADI, Inefficienza della giustizia civile, cit., p. 22.43 Nei primi commenti si è ritenuto che la disposizione contenuta nel nuovo art. 183-bis c.p.c. fosse dettata dalla volontà di stabilire una sorta di «riequilibrio formale, consentendo una sorta di interscambiabilità fra i due riti»; cfr. CANELLA, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, cit., p. 849.

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nostra dottrina. Il riferimento è al cosiddetto «progetto Proto Pisani», pubblicato nel 2009 unitamente a quella che costituisce a tutti gli effetti una sorta di relazione illustrativa44.

Per quanto riguarda il primo grado di giudizio, l’idea di fondo del progetto è quella di predisporre fasi preparatorie differenziate essenzialmente in ragione del fatto «che il giudice nel corso della prima udienza qualifichi la controversia come semplice o complessa». Un’idea di modulazione flessibile del procedimento che si inseriva nel contesto di una più generale ristrutturazione dell’intera fase preparatoria. Un’operazione che avrebbe dovuto contribuire a rivitalizzare in termini efficientistici e di ragionevole durata il processo ordinario di cognizione, rendendo così «agevole sopprimere tutti i riti speciali a cognizione piena». Riguardo alle soluzioni tecniche prospettate, il progetto Proto Pisani prevedeva tre differenti percorsi processuali adottabili dal giudice al ricorrere di determinati presupposti. In primo luogo veniva disciplinata l’ipotesi che agli esiti della agli esiti della prima udienza di trattazione i fatti controversi risultassero tutti documentalmente provati (art. 2.21.). In questo caso, il giudice avrebbe dovuto decidere immediatamente la controversia ovvero riservarsi di deciderla fuori udienza nel termine di trenta giorni. E ciò a meno che le parti non avessero richiesto un termine comunque non superiore a trenta giorni per la redazione di comparse conclusionali.

In quest’ultima ipotesi la sentenza avrebbe dovuto essere depositata nei trenta giorni successivi. Gli altri due percorsi erano riservati rispettivamente alla trattazione delle controversie «semplici» ovvero «complesse»; ove il parametro differenziate era rappresentato dalla «entità e qualità dei fatti controversi, o comunque da provare, e alle esigenze di trattazione» (art. 2.22). Per le controversie semplici (art. 2.23) il giudice avrebbe dovuto invitare le parti a indicare nella stessa udienza e a pena di decadenza i mezzi di prova e i documenti offerti in comunicazione (salva la facoltà per le parti di richiedere un unico termine, non superiore a dieci giorni, per la sola indicazione della prova contraria), fissando una nuova udienza per l’assunzione delle prove ritenute ammissibili e rilevanti. Agli esiti dell’udienza istruttoria, si sarebbe proceduto senza soluzioni di continuità alla discussione finale, con lettura del dispositivo in udienza (e, ove possibile, anche della concisa motivazione che, in caso contrario, avrebbe dovuto essere depositata nei 15 giorni successivi). E ciò a meno che una delle parti non avesse richiesto la fissazione di un termine (non superiore a trenta giorni) per la redazione di comparse, nel qual caso la discussione finale sarebbe avvenuta nell’udienza immediatamente successiva allo scadere di tale termine, con emissione della sentenza con le medesime forme.

Per le controversie complesse (art. 2.24 e 2.25) il procedimento si articolava mediante una rigida scansione di termini e di udienze, alquanto concentrata nelle tempistiche di svolgimento. Si prevedeva in particolare un doppio step di trattazione scritta: il primo riguardante per così dire la trattazione in senso proprio, con scambio di repliche e controrepliche a precedere la celebrazione di una seconda udienza. In questa, il giudice avrebbe indicato alle parti i fatti effettivamente controversi, assegnando termini per il deposito di due memorie istruttorie45.

Tuttavia la vicenda relativa all’emanazione dell’articolo 183-bis c.p.c. appare alquanto più articolata e non influenzata in via esclusiva dal prodromo di riforma da ultimo richiamato. Invero, fra il finire del 2013 e l’inizio del 2014 erano state per così dire formalizzate due diverse opzioni di modifica della prima udienza46. All’inizio della legislatura era stata infatti

44 Cfr. PROTO PISANI, Per un nuovo codice di procedura civile, in Foro it., 2009, V, c. 1.45 Cfr. PROTO PISANI, op. cit., c. 3.46 Una circostanza che conferma il rilievo secondo il quale «la manipolazione della fase di trattazione è un’idea ritornante del nostro legislatore», cfr. CARPI, Linee di tendenza delle recenti riforme processuali, cit., p. 849. Talché «sembra che lasciando inalterata la prima udienza, non sia possibile ottenere alcun miglioramento in termini di durata, di efficienza e di qualità del processo ordinario»; cfr. CANELLA, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, cit.,p. 847.

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nominata un’apposita commissione ministeriale, presieduta dal Professor Romano Vaccarella, incaricata di elaborare un progetto di riforma globale della giustizia civile47. Ciò nonostante, e pare senza attendere che la «commissione Vaccarella» licenziasse il testo finale dei propri lavori (confluiti nella proposta del 3 dicembre 2013), con il d.d.l. del 26 novembre 2013 (collegato alla legge di stabilità 2014) il governo veniva delegato a emanare decreti legislativi recanti «disposizioni per l’efficienza del processo civile, per la riduzione dell’arretrato, il riordino delle garanzie mobiliari, nonché altre disposizioni per l’accelerazione e la semplificazione del processo di esecuzione forzata»48.

Per quanto concerne specificamente la disposizione poi confluita nel nuovo art. 183-bis c.p.c., le soluzioni tecniche prospettate nei due progetti di riforma da ultimo richiamati (il progetto Vaccarella e quello di delega governativa) risultavano alquanto differenziate. Nella prospettiva di giungere a una più celere definizione dei giudizi civili, l’art. 2) del d.d.l. di delega governativa prevedeva la possibilità di attribuire al giudice il potere di disporre in sede di udienza di prima comparizione il mutamento del rito, ordinando il passaggio da quello di cognizione a quello sommario «quando ritiene che sia sufficiente un’istruzione sommaria»49. Il testo della commissione Vaccarella appariva nel raffronto alquanto più articolato e ispirato a principi parzialmente diversificati, essenzialmente riconducibili alla volontà di sollecitare un accordo fra le parti circa la scelta del rito50. La possibilità di modulare il percorso processuale veniva in questa sede realizzata mediante la modificazione delle disposizioni concernenti sia gli atti introduttivi (art. 167 c.p.c.) sia l’udienza di prima comparizione e trattazione della causa (art. 183 c.p.c.).

Sul primo versante, si anticipava il momento di definitiva fissazione del thema decidendum. Un risultato raggiunto per un verso consentendo all’attore di replicare alle difese del convenuto ampliando l’ambito oggettivo o soggettivo del giudizio prima della celebrazione della prima udienza (mediante memoria da depositarsi dieci giorni prima dell’udienza); e, per altro verso, concedendo a entrambe le parti la possibilità di modificare e precisare le proprie allegazioni sino alla prima udienza. Un meccanismo che, come è stato rilevato, avrebbe consentito al giudice di scegliere il percorso processuale più adeguato alle caratteristiche della controversia conoscendo preventivamente la definitiva cornice fattuale (e, quindi, il grado di complessità) della stessa. Secondo il progetto elaborato dalla commissione Vaccarella l’art. 167 c.p.c. (rubricato «comparsa di risposta del convenuto e di replica dell’attore») avrebbe dovuto essere modificato tramite l’inserimento di due nuovi commi (il 4° e il 5°), mediante i quali si sarebbe offerta all’attore la possibilità attraverso una memoria da depositare dieci giorni prima dell’udienza di proporre a pena di decadenza le domande e le eccezioni conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dal convenuto, potendo altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare terzi in giudizio qualora tale esigenza fosse sorta dalle difese del convenuto51.

Sul secondo dei versanti segnalati, veniva prospetta una profonda modifica strutturale della prima udienza, che avrebbe finito per svolgere la funzione di una sorta di udienza presidenziale alla francese. Agli esiti della stessa, infatti, il giudice si sarebbe trovato dinanzi a una triplice possibilità di prosecuzione della controversia, da allocarsi in uno dei tre moduli profondamente diversificati da un punto di vista delle articolazioni processuali, specie con 47 Il lavori della commissione ministeriale, insediata con d.m. 28 giugno - 4 luglio 2013, sono confluiti nella proposta del 3 dicembre 2013, consultabile sul sito www.judicium.it. Per alcune considerazioni sui lavori della commissione Vaccarella v. GAMBA, Le ipotesi di riforma contenute nella Relazione Vaccarella in tema di contumacia e non contestazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2014, p. 831; PASSANANTE, Brevi note critiche, cit., p. 847 ss.; CANELLA, op. loc. cit.48 Il testo del d.d.l. è consultabile sul sito www.giustizia.it. La singolare vicenda relativa all’approvazione del d.d.l. appena richiamato è ricostruita con precisione da CAPPONI, Seconda postilla, cit., p. 1. 49 Il corsivo è tratto dalla relazione che accompagna il d.d.l., anch’essa consultabile sul sito www.giustizia.it.50 Cfr. CANELLA, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, cit., p. 850.51 Sul punto si rinvia nuovamente a CANELLA, op. loc. cit.

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riferimento al numero delle udienze e delle ulteriori memorie scritte depositabili in giudizio. Nel progetto Vaccarella i tre schemi procedimentali sarebbero risultati dalla modifica dei commi 3°, 4°, 5° e 6° dell’art. 183 c.p.c. Il primo di tali percorsi, del tutto peculiare, sarebbe risultato applicabile alle ipotesi di contumacia del convenuto e si sarebbe essenzialmente fondata sull’estensione del principio di non contestazione anche alla parte contumace. Il secondo modello, qualificabile come «semplificato», avrebbe comportato la possibile indicazione di prove ulteriori (dirette e contrarie) nella medesima udienza, con fissazione di una nuova udienza per l’inizio della fase propriamente istruttoria.

Chiusa l’istruzione il giudice avrebbe dovuto procedere all’emissione della sentenza secondo il modello disciplinato dagli articoli 281-quinquies c.p.c. (trattazione mista) o 281-sexies c.p.c. (trattazione orale). Nell’ultimo dei modelli prefigurati, destinato ad applicarsi alle cause di maggiore complessità, il giudice con provvedimento motivato avrebbe dovuto indicare le questioni (anche rilevate d’ufficio) «delle quali ritiene opportuna la trattazione» fissando all’uopo termine non superiore a trenta giorni per il deposito di un’apposita memoria (e, se ritenuto, anche un ulteriore termine di venti giorni per il deposito di repliche). A questa appendice di trattazione scritta avrebbe fatto seguito la celebrazione di un’ulteriore udienza nel corso della quale, secondo la valutazione discrezionale del giudice circa lo stato della controversia, si sarebbe proceduto all’assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti o, in alternativa, alla precisazione delle conclusioni.

A tale riguardo, va tuttavia rilevato come l’analogia con il modello francese risultava più apparente che reale. Ed in effetti, specie con riferimento al cosiddetto circuit long (percorso previsto per le cause di maggiore complessità), il modello francese consente la predisposizione in concreto di un «processo su misura». Con ciò a intendersi che, a differenza di quanto previsto nel progetto Vaccarella, nel modello francese l’individuazione delle necessarie attività processuali (e le relative tempistiche di svolgimento) non risulta predeterminata in astratto dal legislatore, ma lasciata a una determinazione concordata fra giudice e parti per il tramite dello strumento del caléndrier de Procédure52.

Sempre a livello meramente suggestivo, sarebbe forse apparso più appropriato il raffronto fra il modello prospettato nel progetto Vaccarella e quanto accade da oltre un quindicennio nel processo civile inglese. L’individuazione del percorso processuale più adeguato nella prospettiva di una allocazione efficiente e proporzionale delle risorse processuali fra i tre moduli procedimentali preconfezionati dal legislatore (small claims track, fast track e multy track), pur dovendo di regola essere effettuata in base al solo valore della controversia, viene di fatto lasciata alla valutazione discrezionale del giudice in ragione della complessità della controversia. E a evidenziare la serietà e la rilevanza della scelta attribuita al giudice, depone la previsione di specifiche attività appositamente preordinate all’individuazione del track concretamente più confacente alle caratteristiche della controversia; attività, quali lo scambio di appositi allocation questionnaire o la celebrazione di un’apposita allocation hearing, tutte finalizzate all’esercizio di un ampio contraddittorio (prima soltanto scritto e poi, eventualmente, anche orale) a orientare la sua decisione53.

52 Con specifico riferimento all’istituto del calendrier du procès anche nel raffronto con l’analogo istituto introdotto nel 2009 nell’ordinamento italiano vds., anche per ulteriori rimandi bibliografici, DONDI, ANSANELLI, COMOGLIO, Processi civili in evoluzione – Un approccio comparato, Milano 2015, passim; TORQUATO, Di alcuni cliché in tema di calendrier du procès e calendario del processo, cit., p. 1233. 53 Vds. DONDI, ANSANELLI, COMOGLIO, Processi civili in evoluzione, op. cit., passim. Ed in effetti, la celebrazione della allocation hearing può essere ordinata soltanto dopo lo scambio degli allocation questionnaire (anch’essi, invero, soltanto eventuali). Per un singolo rimando al processo inglese v. ANDREWS, The Three Paths of Justice: Court Proceedings, Arbitration, and Mediation in England, Oxford, 2012, passim; ID., Controversie civili e complessità. L’esperienza inglese, in DONDI (a cura di), Elementi per una definizione di complessità processuale, cit., p. 65. Nella dottrina italiana v. PASSANANTE, Il processo civile inglese, in Enc. Dir., Ann., III, 2007, p. 976; FICCARELLI, Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale, Napoli, 2011, p. 95. DONZELLI, La fase preliminare del nuovo processo civile inglese e l’attività di case

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Anche le soluzioni accolte sul punto dal legislatore italiano del 2014 non paiono sovrapponibili a quanto presente nel modello francese o in quello inglese. Sul primo versante, come si è detto, nella norma italiana manca qualsiasi valorizzazione del principio collaborativo, essendo assente ogni riferimento alla possibilità che giudice e parti concordino attività da svolgere e tempistiche vincolanti delle stesse.

Sul secondo versante risultano invece non specificamente disciplinate le attività finalizzate a consentire al giudice di assumere in tutte le informazioni necessarie per l’allocazione della controversia.

Ed in effetti si tratta, come subito si dirà, di una scelta che deve per così dire essere annunciata dal giudice in sede di prima udienza; salvo poi poter essere eventualmente rivista a seguito dello svolgimento di ulteriori attività processuali finalizzate all’esplicazione del contraddittorio sul punto. A ciò si aggiunga che una delle principali critiche già sollevate nei commenti a prima lettura concerne proprio l’individuazione del momento entro il quale effettuare il mutamento del rito. E’ stato infatti rilevato che il giudice è chiamato a compiere questa valutazione avendo una conoscenza tendenzialmente parziale e incompleta dell’oggetto della controversia. E ciò in quanto le parti non hanno ancora usufruito dell’appendice scritta prevista dal 6° comma dell’art. 183 c.p.c., non essendosi pertanto pervenuti a una definitiva cristallizzato del thema decidendum e del thema probandum54.

Probabilmente anche in ragione di queste discrasie, le modalità tecniche attraverso le quali realizzare il mutamento del rito appaiono nel nuovo art. 183-bis c.p.c. alquanto complesse e articolate. Tanto da rischiare di vanificare gli obiettivi di complessiva velocizzazione dell’iter procedimentale perseguiti dal legislatore della riforma55. Come in precedenza già anticipato, la norma in commento connette infatti l’eventuale mutamento del rito al possibile verificarsi di due appendici di trattazione (con l’eventuale celebrazione di un’ulteriore udienza). La prima, di carattere cogente e concernente la questione relativa all’eventuale mutamento del rito, risulta da esercitarsi in forma orale o scritta seconda la discrezionale valutazione del giudice. La seconda -almeno teoricamente solo eventuale-dedicata alle deduzioni e produzioni istruttorie, risulta anch’essa da esercitarsi oralmente in udienza o mediante lo scambio di memorie scritte secondo la valutazione del giudice. Ed infatti, l’art. 183-bis c.p.c. impone innanzitutto al giudice di sottoporre al contraddittorio fra le parti la sua intenzione di procedere, allo stato degli atti, al mutamento del rito. Sul punto il tenore letterale della norma non concede al giudice alcun margine discrezionale. Ciò che invece risulta rimesso alla sua valutazione è la decisone della forma orale o scritta dell’ambito contraddittoriale da concedere alle parti, nonché la sua concreta articolazione. La disposizione in commento espressamente non esclude (ma, anzi, nel suo tenore letterale sembrerebbe implicitamente incoraggiare) la possibilità che il contraddittorio si svolga in forma scritta; ossia mediante lo scambio di una (o due) apposite memorie56.

Pur prescindendo dall’incidenza di questa ulteriore fase contraddittoriale sulla speditezza dell’iter procedimentale, potrebbero manifestarsi nella prassi problemi di non agevole risoluzione circa il possibile contenuto di tale memoria. Una prima opzione potrebbe consigliare di circoscriverlo esclusivamente alle considerazioni riguardante la scelta del rito da adottare per la prosecuzione della controversia. Tuttavia, in questo momento vi sono una serie di attività processuali che risultano ancora non precluse per le parti: quali la precisazione

management giudiziale, in LANFRANCHE - CARRATTA (a cura di), Davanti al giudice - Studi sul processo societario, Torino, 2005, p. 532.54 Cfr. PASSANANTE, Brevi note critiche, cit., p. 820; CANELLA, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, cit., p. 850; D’AGOSTO - CRISCUOLO, Prime note sulle misure urgenti di degiurisdizionalizzazione, cit., p. 25.55 In questo senso CONSOLO, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo, cit., p. 1178.56 La possibilità expressis verbis di far precedere la decisione giudiziale sulla scelta del rito dal contraddittorio in forma anche scritta, sembra costituire un indubbio fattore di induzione verso l’adozione di tale modalità contraddittoriale.

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e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate (art. 183 comma 6 n. 1 e 2 c.p.c.); la deduzione di istanze istruttorie e la produzione di documenti (art. 183 comma 6 n. 2); la formulazione di prove contrarie (art. 183 comma 6 n. 3 c.p.c.); la richiesta congiunta di procedere al tentativo di conciliazione (art. 185 c.p.c.); nonché, per l’attore, la formulazione di domande o eccezioni riconvenzionali derivanti dall’attività difensiva del convenuto (art. 183 comma 5 c.p.c.).

Pertanto, qualora simili attività dovessero confluire nell’eventuale memoria autorizzata per l’esercizio del contraddittorio sul rito, le relative allegazioni e deduzioni dovrebbero considerarsi legittimamente integranti l’oggetto della controversia. E, quindi, incidere sulla valutazione del giudice circa la «complessità della lite e dell’istruzione probatoria». Del resto, proprio in conseguenza di quanto allegato e dedotto dalle parti con tale memoria, il giudice potrebbe mutare la propria intenzione iniziale circa la scelta del rito. E ciò in quanto potrebbe risultare sostanzialmente variato il quadro della «entità e qualità dei fatti controversi o comunque da provare»; fattore che dovrebbe costituire il parametro differenziante le controversie « semplici » (per le quali adottare il procedimento sommario) da quelle «complesse» (per le quali preservare l’applicazione del processo ordinario)57.

4. Di seguito alcune brevi considerazione conclusive, da intendersi come meri spunti per più approfondite e qualificate riflessioni.

Quale criterio guida per orientare le scelte del giudice circa le modalità di esercizio del contraddittorio sul rito sembra possibile rilevare la sostanziale assenza di serie ragioni per ritenere che il suo esercizio in forma orale abbia un valore minore -anche sotto un profilo garantistico- rispetto al contraddittorio in forma scritta. Del resto, le parti sono consapevoli del fatto che alla prima udienza potrebbero trovarsi a dover affrontare la questione relativa al mutamento del rito. Per converso, bisogna considerare che l’esplicazione del contraddittorio scritto pare in contrasto con la finalità di accelerazione che costituisce lo spirito dell’art. 183-bis c.p.c., con il rischio che «si occupino tempo e pagine per discutere di una questione meramente procedurale, anziché del merito della lite»58. Pertanto, la concessione di termini per l’esercizio in forma scritta del contraddittorio sul rito deve costituire l’extrema ratio a cui ricorrere soltanto nelle ipotesi più controverse.

Ed in effetti, in altri ordinamenti-quale quello inglese, ove l’allocation della controversia a opera del giudice costituisce il momento a tutti gli effetti cruciale per garantire l’applicazione dei principi di proporzionalità ed efficienza nella gestione delle controversie civili- i termini della questione sono invertiti. La (eventuale) compilazione a opera delle parti di appositi moduli scritti (allocation questionnaire), specificamente finalizzati a fornire informazioni ulteriori per l’allocation della controversia, può infatti essere ordinata dal giudice subito dopo lo scambio degli atti introduttivi e precede, pertanto, lo svolgimento di qualsiasi altra attività processuale. Peraltro, la celebrazione di un’apposita allocation hearing (anch’essa soltanto eventuale) è destinata ai casi in cui nonostante lo scambio degli allocation questionnaire il giudice non sia riuscito a formare il proprio convincimento sul punto59. Sarebbe parso opportuno accompagnare l’introduzione dell’art 183-bis con una sostanziale modifica della fase introduttiva così come prospettato nel progetto Proto Pisani o dalla commissione Vaccarella tale da consentire di celebrare la prima udienza avendo già esaurito le attività di fissazione del thema decidendum.

Per altro verso, sembra possibile auspicare che la disposizione in commento induca le parti a formulare i propri atti introduttivi in maniera tendenzialmente più completa; e ciò sul 57 L’inciso è ripreso dal par. 2.22 (rubricato «controversie semplici e controversie complesse») del progetto Proto Pisani. A riguardo, vds. PROTO PISANI, Per un nuovo codice di procedura civile, cit., p. 32.58 Cfr. CONSOLO, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo, op. cit., p. 1173 ss.59 Cfr. ANDREWS, The Three Paths of Justice, cit., p. 163 ss.

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duplice versante e della specifica fattualizzazione delle proprie pretese e di una compiuta attività istruttoria. L’eventualità che il giudice possa ordinare già alla prima udienza il mutamento del rito con conseguente non automaticità di ulteriori momenti per il completamento delle proprie difese dovrebbe consigliare alle parti di formulare gli atti introduttivi in maniera completa ed esaustiva.

Una compiuta definizione sotto il profilo fattuale delle rispettive pretese potrebbe consentire al convenuto di dedurre tutti i mezzi di prova necessari in sede di comparsa di costituzione e risposta; e, per l’attore, di giungere alla prima udienza conoscendo i nuovi ambiti fattuali introdotti dal convenuto, sui quali ritiene necessario (e possibile) articolare nuovi mezzi di prova non indicati negli atti introduttivi60. Rendendo con ciò possibile la deduzione degli ulteriori mezzi di prova oralmente in udienza.

Il raggiungimento di un simile risultato -pur auspicabile in assenza di una seria e non più procrastinabile riforma della disciplina degli atti introduttivi- risulta connesso con l’ampiezza (o non) con la quale il nostro giudiziario si avvarrà delle possibilità offerte dal nuovo art. 183-bis c.p.c. Non sembra possibile escludere che l’attribuzione al giudice di queste nuove facoltà «manageriali» finiscano per indurre il nostro giudiziario ad affrontare la prima udienza in una prospettiva diversa rispetto al passato: ossia non più come mera premessa per giungere (in maniera pressoché automatica) all’ulteriore trattazione scritta della causa (ex art. 183 comma 6° c.p.c.), ma come luogo per un confronto effettivo con le parti, fondato sulla piena conoscenza del materiale di causa. Un dibattito che preluda a scelte incisive (si auspica anche concordate) circa il percorso processuale ottimale per la risoluzione della controversia.

Infine, a prescindere dalle perplessità circa le soluzioni tecniche adottate con l’art.183-bis, non pare seriamente criticabile la scelta del legislatore di introdurre meccanismi di flessibilità del rito ordinario da orientare secondo principi di case management giudiziale e di cooperazione fra parti e giudice. Si auspica, pertanto, che l’introduzione della norma in commento rappresenti soltanto una prima tappa di un progressivo percorso in tal senso.

De iure condito sembra invece possibile prevedere che l’efficacia dell’art. 183-bis c.p.c. risulti subordinata al verificarsi di due condizioni. La prima è ovviamente che il nostro giudiziario decida di utilizzare la facoltà di ordinare il mutamento del rito con la maggiore ampiezza possibile. Soltanto in questo caso il procedimento sommario potrebbe diventare un’alternativa effettiva al processo ordinario. In questo senso, l’attribuzione al giudice di tale potere pare interpretabile come una risposta al ricorso oggettivamente molto modesto e inferiore alle attese al procedimento sommario di cognizione a opera delle parti61. La seconda condizione è che una volta ordinato il passaggio del rito il giudice utilizzi in maniera corretta ed effettiva i poteri che l’articolo 702 ter c.p.c. gli attribuisce. Evitando, in particolare, di modellare nella pratica il procedimento sommario sulle forme del rito ordinario, in quanto ciò «porterebbe a riprodurre all’interno del rito sommario tutti gli inconvenienti di quello ordinario»62.

VINCENZO ANSANELLIRICERCATORE E PROFESSORE AGGREGATO

IN DIRITTO PROCESSUALE CIVILEUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA

60 V. DONDI, Riforma degli atti introduttivi. Il processo statunitense e il processo italiano, in Riv. dir. proc.,2014, p. 435 ss.61 V. LABORAGINE, Procedimento sommario di cognizione: prime esperienze applicative, in Foro it., 2011, V, c. 59 ss.62 Cfr. TARUFFO, Introduzione: le ultime riforme della giustizia civile, cit., p. 18.

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